Prevenire i contagi potenziando il sistema immunitario

Guruji BKS Iyengar nacque nel 1918, nel pieno della pandemia di influenza “spagnola” che fece milioni di vittime in tutto il mondo e sua mamma si ammalò proprio quando era incinta. Forse per questo motivo Guruji fu un bambino di salute cagionevole e le sue  condizioni lo portarono a studiare yoga. Grazie al suo insegnamento, ora moltissime persone in tutto il mondo possono praticare yoga mettendo in essere le tecniche da lui perfezionate e migliorare così il loro stato di salute fisica e mentale.

Ma le epidemie continuano. Ci furono, tra le altre,  l’influenza suina e poi la SARS. Ora c’è una  nuova epidemia che si sta propagando in tutto il mondo, nonostante precauzioni senza precedenti. Più che la malattia in sé, è la paura di ammalarsi che danneggia milioni di persone.  Chi viaggia ha paura di ammalarsi e chi rimane a casa ha paura dei viaggiatori!

Quando si diffuse il timore per la c.d. influenza suina, le autorità indiane decisero di chiudere le scuole e anche l’Istituto di Pune dovette chiudere, benché non ci fossero ammalati tra gli insegnanti e gli studenti. Ma fortunatamente lo yoga ha metodi diversi e più intelligenti di affrontare il problema, che non va comunque sottovalutato. La forza dello yoga è la prevenzione. “Āsana e prānayāma dovrebbero essere praticati da tutti perché rinforzano il sistema immunitario e forniscono resistenza e forza in qualsiasi condizione ambientale” (Yoga e Sport, p. 139). Il saggio Patanjali infatti diceva : “Heyaṃ duḥkham anāgatam” (Yoga Sutra, II, 19), ovvero, la sofferenza che deve ancora manifestare deve essere evitata.

Questa non è certo una critica a quanti si stanno adoperando per evitare la diffusione del nuovo coronavirus. Se il virus fosse così contagioso, allora davvero sarebbe una catastrofe globale; ma non tutti si ammalano e fortunatamente la stragrande maggioranza delle persone ammalate guariscono. Questo deve far riflettere in merito alla reazione globale di paura, che non è del tutto razionale. E’ la risposta individuale ai cambiamenti ambientali che fa sì che alcuni si ammalino e che per altri addirittura la malattia sia fatale.

Ci sono nel mondo numerose vittime innocenti per cause molto diverse dalle epidemie di influenza, che non trovano mai lo spazio nelle prime pagine dei giornali.

Se non tutti si ammalano, è merito del sistema immunitario. Guruji, proprio in occasione dell’epidemia di peste suina, suggerì una sequenza di asana e pranayama specifica per incrementare le difese dell’organismo. L’agente principale delle difese immunitarie, spiega Guruji, è il sangue dove i globuli bianchi impediscono l’invasione di microrganismi. Studi recenti hanno dimostrato gli effetti antinfiammatori dell’Iyengar Yoga; i risultati benefici della pratica costante delle posizioni capovolte sono stati studiati  dettagliatamente da Guruji.  E’ ora di provare questa pratica e studiarla meglio! Chi non è in grado di eseguire o mantenere le posizioni così a lungo, può utilizzare i supporti.

IMG_4948Pratica della mattina

Uttānāsana 5 minuti

Adho Mukha Śvānāsana 5 minuti

Prasārita Padotanāsana 3 minuti

Śirşāsana 5 minuti, più 10 minuti di variazioni

Vipārita Daņdāsana con la sedia 5 minuti

Sarvangāsana 10 minuti

Halāsana 5 minuti

Sarvangāsana variazioni 5 minuti

Setu Bandha Sarvangāsana 5 minuti

Vipārita Karani 5 minuti

Śavāsana con Viloma o Ujjay prānayāma 10 minuti

schiena8Pratica della sera

Śirşāsana 10 minuti

Sarvangāsana 10 minuti

Halāsana 5 minuti

Setu Bandha Sarvangāsana 10 minuti

Śavāsana con Viloma o Ujjay prānayāma 10 minuti

Questa sequenza è costituita interamente da posizioni capovolte o posizioni in cui la cima della testa è rivolta verso il basso. Anche chi non sa eseguire queste posizioni, può praticare ugualmente la sequenza utilizzando le corde per Śirşāsana o la sedia per Sarvangāsana. Questa sequenza era stata proposta in una situazione di emergenza, la diffusione della peste suina. 

Nella sequenza proposta in un altro testo (B.K.S. Iyengar, Yoga, A Path to holistic Health), per incrementare le difese immunitarie,  le posizioni capovolte sono precedute da Supta Badda Konasana, Supta Virasana e Setu Bandha Sarvangāsana con l’uso di bolster, ovvero in modalità molto rilassante e confortevole. Non vengono dati i tempi, che sono invece impegnativi nella sequenza proposta su Yoga Rahasya. Come sempre, Guruji voleva adeguare lo yoga all’esperienza delle persone e rendere i benefici accessibili a tutti.

Bibliografia consultata:

B.K.S.Iyengar, Light On Yoga, London 1966, in particolare pp.179-237 su Śirşāsana,Sarvangāsana e il loro ciclo.

“Building Immunity and Avoiding the Flu”in Yoga Rahasya, Compilation of articles pertaining Yoga Therapy published from 1994 to 2009, pp.143-145

B.K.S. Iyengar, Yoga, A Path to holistic Health, London 2008, pp.308-311.

B.K.S. Iyengar, Yoga e Sport, Roma, 2017, pp.139-141.

La traduzione italiana del Commentario degli “Yoga Sutra di Patañjali” di Edwin Bryant

E’ stato un privilegio ed un onore per me collaborare all’edizione italiana, pubblicata dalle Edizioni Mediterranee, di questo testo così importante per ogni praticante yoga e lavorare con Gabriella Giubilaro, Chiara Ghiron ed Edwin Bryant. Il mio lavoro è consistito nel rileggere il testo e suggerire le espressioni più scorrevoli e comprensibili in italiano. Trattandosi di un testo filosofico in cui è arduo trovare una corrispondenza perfetta tra le due lingue (ad iniziare dalla traduzione dei sūtra dal sanscrito all’inglese e quindi all’italiano), il lavoro è stato impegnativo e non breve, si sono dovuti affrontare e risolvere insieme tanti dubbi, come Gabriella ha sottolineato nella prefazione.

img_20191209_163228-e1575908263109.jpgOra che il libro è pubblicato, mi affascina la sensazione di sentirmi solamente un po’ più vicina agli Yoga Sūtra come se non avessi dedicato ad essi ogni momento del mio tempo libero per molti mesi, ma soltanto alcune ore o pochi giorni.  La traduzione ha  contribuito  di sicuro in modo sostanziale alla mia conoscenza del testo ma nello stesso tempo mi ha fatto appena intravvedere la sua complessità.Il titolo inglese dell’opera è “The Yoga Sutra of PatañjaliA New Edition, Translation and Commentary by Edwin Bryant” 2009, Foreword copyright by B.K.S. Iyengar. E proprio Guruji nella sua prefazione sottolinea che il metodo di lavoro scelto da Edwin, spiegare gli Yoga Sūtra con i commentatori precedenti, ne fa il testo di riferimento per gli studenti occidentali che hanno deciso di seguire il cammino dello yoga.  Gabriella osserva: ” In questo modo, il lettore interessato all’argomento, ma che manca di una formazione accademica specifica, può accedere a molti testi importanti in un solo volume”.  Da parte mia, sono stata colpita, proprio rileggendo più volte il testo di Edwin, dalla sua costante e meticolosa ricerca dell’interpretazione più corretta, tenendo conto del fatto che “la nostra comprensione del testo di Patañjali è completamente dipendente dalle interpretazioni dei commentatori posteriori. Questo lascia ovviamente aperta la possibilità che i commentatori abbiano capito male o che, più probabilmente, abbiano reinterpretato aspetti del testo filtrando antiche nozioni attraverso le prospettive teologiche o settarie dei loro tempi”.  Ed è quello che Edwin cerca costantemente di evitare, utilizzando per quanto possibile un approccio fenomenologico, ovvero astenendosi dall’ utilizzare metodi interpretativi moderni sul testo antico di argomento filosofico religioso “in maniera non giudicante e il più possibile neutrale”.

Questo punto di vista  (che contraddistingue il metodo di lavoro di Edwin e quindi tutta la sua produzione scientifica) con il corretto e sapiente uso delle fonti e l’abilità a comunicarle, non sono caratteristiche così scontate, soprattutto pensando alla estrema difficoltà della materia e al pubblico cui è rivolta. Infatti oggi la passione per la pratica yoga “sul tappetino” rischia di lasciare sullo sfondo la finalità dello yoga e la complessità del percorso.  Anche chi desidera studiare ed approfondire si può scoraggiare di fronte ad una materia non soltanto difficile da afferrare e astrusa, per la mancanza di riferimenti alla nostra cultura, ma alle molteplici interpretazioni e “scuole” che tentano di semplificare. Questo sistema non può certo accontentare chi desidera veramente avvicinarsi alle fonti dello yoga.

Con questa lunga premessa, dopo aver lavorato con grande piacere all’edizione italiana di questo testo, mi rendo conto di essere soltanto all’inizio del percorso di studio e comprensione degli Yoga Sūtra di Patañjali; tuttavia, trovo questa sensazione intrigante e non assolutamente frustrante. Ogni piccola scoperta è una grande scoperta.  Ne voglio ricordare in particolare due. 

La prima si trova proprio all’inizio del testo dove Patañjali descrive il primo degli stati mutevoli della mente, pramāṇa: “La conoscenza corretta consiste in percezione sensoriale, logica e testimonianza verbale” (YS, I, 7). La percezione sensoriale è indicata per prima: è quindi la più importante risorsa per acquisire la conoscenza corretta. Qui Patañjali chiaramente mette davanti la diretta testimonianza dei fatti rispetto ad ogni tipo di informazione mediata ed Edwin commenta in questo modo: ” E’ per via di questo orientamento che lo yoga, secondo la mia opinione, è destinato a rimanere fonte di interesse costante per le inclinazioni empiriche del mondo moderno”. In altri termini, Patañjali è estremamente moderno, in quanto lascia alla responsabilità individuale il decidere che cosa è vero e perché. Su questo punto Patañjali ritorna più volte, da vari punti di vista, ma una sintesi magistrale è quella di Edwin nelle Riflessioni Conclusive del volume, quando parla di puruṣa e Libero Arbitrio: l’agentività (libero arbitrio) fa parte delle caratteristiche di buddhi o di puruṣa?  Edwin osserva che il punto di vista di Patañjali sull’argomento è neutro ed alcuni commentatori propendono esplicitamente per negare la funzione di agente a puruṣa mentre una ricca tradizione di studi (tra cui i Vedanta Sūtra) riconosce invece  a puruṣa la qualità di agire. La questione è di importanza basilare, anche rispetto alla disputa con il buddismo, perché non vi sarebbe coerenza con la legge del karma senza riconoscimento al puruṣa del libero arbitrio come agente della propria condizione, argomenta Edwin. E di nuovo Patañjali si svela in tutta la sua attualità!

Il secondo punto -a proposito di interpretazioni e di scuole- è al commento del sūtra III, 29 “Con il samyama sul cakra dell’ombelico si ottiene la conoscenza della struttura del corpo”. Qui molto opportunamente (forse ricordando le domande dei suoi allievi praticanti di āsana) Edwin ricorda che lo Yoga classico di Patañjali non si occupa della fisiologia dei cakra perché l’obbiettivo dello yoga di Patañjali non è quello della teoria per cui la liberazione si ottiene quando l’energia kundalini raggiunge il sahasraracakra sulla cima della testa. Esistono, nella stessa tradizione indiana, autorevoli contaminazioni tra i due sistemi come nell’haṭha yoga ma di base la tradizione yoga è dualistica mentre l’insieme delle tradizioni tantra/sakta  è monistica.

Lo stesso Guruji incidentalmente ricorda la fisiologia dei cakra, che ricorre spesso anche nelle lezioni di Prashant. Tuttavia proprio Prashant precisa che Iyengar Yoga non è assolutamente Haṭha Yoga (cosa che implicherebbe una distinzione tra haṭha e raja yoga) benché ritenga utile insegnare alcuni aspetti illustrati nell’ Haṭha Yoga Pradīpikā, come i bandha, i mudrā e i cakra. (Prashant Iyengar, Yoga and the New Millennium, pp. 20-21).

Patanjali
Statua di Patanjali al RIMYI, il giorno del Guru Purnima (festa di tutti i Guru)

Alla fine, come ricorda BKS Iyengar nella prefazione, lo yoga è una materia di studio pratica e non descrittiva. E proprio la pratica condotta secondo i suoi insegnamenti dà la chiave a mio parere per apprezzare la straordinaria sapienza del testo di Patañjali. Il testo di Edwin dà la possibilità ad ognuno di noi praticanti di āsana, pranayana e meditazione di comprenderlo poco per volta e di inserire questo studio nella pratica quotidiana, verificandone personalmente la corerenza rispetto alle nostre percezioni, sensibilità ed esperienza. Un grande ringraziamento ad Edwin (sperando che presto finisca il suo commento alla Bhagavadgītā!) e a Gabriella.

Definizioni di yoga

Non sappiamo esattamente quanto antico sia lo yoga; quindi non esiste una unica definizione di yoga. Tutti sappiamo che la radice sanscrita della parola significa unire, attaccare, e da essa sono derivate le parole prima latine, poi italiane di giogo e unione.  Secondo BKS Iyengar, yoga significa dirigere  la propria attenzione alla ricerca della suprema verità; ma anche significa unire la volontà individuale con quella divina. Il Maestro si chiede: quando una scienza, ad esempio, la chimica, fu scoperta, la definizione e la comprensione della materia erano le stesse di oggi? Certamente no.  Se oggi sentiamo parlare di “chimica” sappiamo immediatamente a cosa ci si riferisce. Però se guardiamo alla storia della scienza, possiamo vedere come è stato lungo il percorso per rendere noto qualcosa che prima era sconosciuto.

Secondo la tradizione indiana, i saggi cercarono una soluzione, avendo compreso che l’oceano dei desideri umani era senza fine e che la mente doveva trovare un modo per sentirsi libera da questa costrizione insopportabile. Non ci fu quindi una definizione della materia all’inizio; successivamente, quando con l’esperienza si crearono metodologie e tecniche di pratica, si tentarono anche le definizioni. Come nell’esempio della chimica, se vogliamo capire, dobbiamo considerare quanto è stato lungo il percorso di ricerca.

Quando ora vediamo le diverse definizioni di yoga dei Veda, Upanisad, Yoga Sutra e Bhagavad Gita, comprendiamo come la disciplina sia cambiata a seconda dei bisogni della società e della capacità di discriminare dei praticanti e studenti.

Un testo visnuita composto durante il primo millennio d.C., forse intorno al 300 d.C., il Ahirbudhanya Saṃhitā, fornisce una definizione di yoga molto chiara, che è quella ancora oggi più utilizzata: “Lo yoga è l’unione tra l’anima individuale e l’anima universale”.  E’ stato questo un momento di grande importanza per la storia e la filosofia indiana, in cui furono scritti i testi di riferimento.

Appena un poco più tardi, nella Bhagavad Gita, il dio Krishna si rese conto che la volontà umana era in fase di debolezza, e quindi dovette rendere più facile e comprensibile il cammino. Definì quindi lo yoga a due livelli, conoscenza e azione. “Lo yoga è equanimità”; “Lo yoga è eccellenza nell’azione”. Secondo BKS Iyengar, l’equanimità deve venire dalla intelligenza dell’anima e l’intelligenza della consapevolezza. L’anima, con citta (la mente), i karmendriyas (orgari di azione), i jnanedriyas (organi di percezione), ahamkara (senso dell’io), buddhi (intelligenza): tutto questo deve essere integrato e unificato con lo yoga. A questo punto, l’anima è ovunque e chiunque viene trattato con equanimità. Per quanto riguarda “l’eccellenza nell’azione”, Krishna non sta dicendo di agire senza un fine, ma di eliminare i motivi egoistici. Nel momento in cui l’egoismo interviene, l’azione è contaminata.  L’azione sicuramente porterà dei frutti, ma non è questo il motivo per cui bisogna agire. Il nostro compito è quello di eliminare l’aspetto egoistico e utilitaristico dall’azione.  Guruji approfondisce su questo aspetto, che è difficile da comprendere e da far comprendere.  E’ impossibile fare un’azione senza uno scopo, ma è possibile farla senza ambizione. Avere uno scopo ed essere ambiziosi non sono la stessa cosa;  lo scopo può essere di ottenere benefici universali, per tutti, invece l’ambizione ha sempre uno scopo egoistico e una finalità egoistica.

La parola “eccellenza” ha il suo corrispettivo nella pratica e nella rinuncia. Krishna non dice di rinunciare all’azione, tutt’altro; ma di agire rinunciando ai frutti dell’azione. “Eccellenza” è il modo di agire libero da ambizione e egoismo.  Quindi, la definizione dell’ Ahirbudhanya Saṃhitā si esprimeva in termini di bhakti  (devozione), mentre quella della Bhagavad Gita in termini di karma (azione). 

Infine, vediamo come Patanjali definisce lo yoga.  Al tempo di Patanjali, era necessaria una maggiore raffinatezza concettuale, perché ancora non vi era chiarezza su cosa fosse citta e cosa fosse anima, atman.  Così Patanjali definisce lo yoga in due modi: prima come disciplina e poi come fermare le fluttuazioni e modificazioni mentali.  Questi sono i primi due sutra della sua opera.  Il suo trattato è pratico, e in questo modo Patanjali definisce sia la pratica che la rinuncia.

Dopo tanti anni dobbiamo guardare, dice BKS Iyengar, a questa disciplina pratica in modo nuovo perché pratica e rinuncia sono troppo pesanti per i tempi in cui viviamo. Le persone  si vantano di praticare yoga, anche se in realtà praticano pochissimo. Questa è la mentalità moderna, vantarsi molto e fare poco.  C’è interesse per lo yoga, ma non c’è profondità.  E’ necessario un incentivo.  E allora, ragiona Guruji, io farei una piccola modifica alla definizione: ” Lo yoga è il fermare i dolori della mente”. Tutti noi soffriamo di dolori, fisici e mentali, abbiamo dispiaceri e motivi di tristezza; ma questo non vuol dire che si debba praticare yoga solo per risolvere problemi. Patanjali invita la nostra sensibilità e attenzione a guardare alle cause dei dolori e delle malattie, che è sempre dentro di noi, nascosta nei nostri comportamenti, abitudini, carattere, attitudine mentale. Infatti, sempre Patanjali ammonisce: “i dispiaceri che non si sono ancora manifestati, possono essere evitati”, ovviamente con la pratica yoga.

Anche Krishna aveva ricordato che i dolori possono essere evitati regolando la qualità e quantità di cibo, azione, sonno ecc. Con una vita regolata ed equilibrata, la pratica yoga si inserisce armoniosamente.  Comunque, tutti vogliamo evitare il dolore, ma l’analisi non è sufficiente. Dobbiamo trovare la radice del dolore nascosta nel samskara.  E’ questa una parola di denso significato: vuol dire l’accumulo delle azioni del passato e il coltivare se stessi in questa vita.  Benché cerchiamo di coltivare buoni pensieri e buone azioni, i comportamenti del passati lasciano come impronte.  Se vogliamo proseguire il cammino dello yoga, occorre fare due cose, coltivare nuovi samskara che lascino impronte positive e sradicare i samskara sbagliati del passato.  Non è facile. Le impronte sono radicate profondamente nel cuore e lasciano dei semi, i semi creano alberi che producono frutti. Questo è il ciclo inesauribile delle nostre vite. Ma lo yoga è l’unico mezzo con cui si possono curare le ferite nel cuore portate da samskara sbagliati. La pratica produce impronte positive speciali, “yogiche”, libere da paura e capaci di neutralizzare le impronte negative presenti.  Questo è ciò che dice Patanjali parlando di pratica e di rinuncia.

Questo ci dà infine un’altra definizione di yoga: “Lo yoga frena le modificazioni dei samskara. Nel cammino dello yoga, resta poi un’ultima impronta, la luce della saggezza che distrugge tutte le altre impronte negative, fino a quando anche questo samskara, positivo, ma pur sempre samskara, diventa inutile e si crea la luce completa. C’è una parola bellissima, Rtambhara, che non si pò esattamente tradurre. Significa dimorare nella verità. Prajna significa invece consapevolezza intelligente. Si trattare più alto livello di intelligenza. Per questo dico: ” Lo yoga ferma le fluttuazioni del samskara

(Questi appunti sono ricavati da BKS Iyengar, Light on Ashtanga Yoga, 2° ed., Mumbai, 2012, in particolare le pp. 15-27)

Asana/Dharana. Concentrare l’attenzione

Sabato 24 marzo, in Via Guastalla, dalle 9 alle 12, abbiamo praticato una sequenza di asana e pranayama allo scopo di comprendere dhāraṇā, il sesto “stadio” dello Yoga, la concentrazione

Simbolo di dhāraṇā, la dea Durga,  una madre divina combattente. Mentre l’auriga doveva faticare per mantenere i cavalli del carro (=organi di senso) sulla retta via, e questa è la pratica del pratyahara, Durga cavalca tranquillissimi leoni e tigri addomesticati, mostrando, con eleganti gesti delle molte braccia, i simboli della concentrazione. Dhāraṇā è infatti un “anga” dello yoga di livello superiore e presuppone l’aver già raggiunto una forma di indifferenza verso le cose del mondo. 

Durga-Kavach

Alla concentrazione, dhāraṇā, Patanjali dedica un solo sutra, il primo del vibhūti-pādaḥ  e dicendo che “la concentrazione è il fissare l’attenzione su un punto”. Patanjali non dice “dove” va fissata l’attenzione, ma i commentatori propongono sia oggetti “interni” al corpo, come i famosi chakra, oppure la punta del naso, lo spazio tra le sopracciglia ecc. , che oggetti “esterni”, forme divine, una fiamma, un suono ecc.

Iyengar sostiene che l’attenzione di chi  pratica gli asana è dhāraṇā, da più punti di vista: può essere la concentrazione intensa “degli organi d’azione e i sensi di percezione verso la mente e la mente verso il centro” ma anche “l’arte di ridurre le interruzioni della mente, in modo da eliminarle completamente”. La facoltà della mente che deve intervenire è buddhi, la discriminazione costante, infinitesimale.

Per esercitare dhāraṇā nel corso della pratica degli asana occorre cambiare punto di vista. Fissare l’attenzione è difficile per chiunque, e mantenerla ancora più difficile. Occorre rendere l’esecuzione degli asana “puntiforme”. Non si tratta di “eseguire” posizioni e tanto meno di “praticare” una sequenza. Bisogna  seguire e indirizzare con grande meticolosità, attimo per attimo, il movimento che il corpo/mente esegue, identificando le azioni che si stanno eseguendo; in altri termini, “fissare” l’attenzione e comprendere come la mente indirizza il corpo per entrare, rimanere ed uscire dalla posizione.

IMG_5078Quando pratichiamo un asana, per esempio ardha chandrasana, l’attenzione normalmente si muove velocemente su differenti punti del corpo mentre eseguiamo i diversi passaggi che ci portano alla posizione finale. Con la concentrazione, oltre a questo,  possiamo scegliere infiniti passaggi intermedi  in cui fissare l’attenzione. In ogni passaggio occorre eseguire una breve pausa, fissare l’attenzione ed identificare le azioni che il corpo sta facendo/deve/dovrebbe fare. Ad esempio, utthita trikonasana/utthita parsvakonasana/avvicinare la gamba dietro mantenendo l’allineamento della gamba davanti/alzare la gamba dietro con la gamba sotto piegata/stirare la gamba sotto/l’interno della coscia sale e la caviglia scende/portare l’esterno della coscia della gamba sotto indietro/ruotare il bacino verso l’alto/ruotare il torace verso l’alto/guardare il soffitto e ritornare seguendo gli stessi passaggi.

Per posizioni complesse, come parivrtta parsvakonasana, parivrtta ardha chandrasana è possibile individuare un numero ben maggiore di passaggi/momenti/luoghi/azioni.

Operare in questo modo è indispensabile per imparare asana più complicate e avanzate, o che richiedono l’utilizzo di azioni già sperimentate e praticate in asana più semplici.  Ad esempio, per imparare padmasana, è necessario aver appreso l’azione di rotazione della coscia verso l’esterno di Janu sirsasana.

img_20180323_162306.jpg

Questa la sequenza praticata:

Utthita parsvakonasana

ardha chandrasana

parivrtta trikonasana

parivrtta parsvakonasana

parivrtta ardha chandrasana

adho mukha svanasana

sirsasana

virasana

Janu sirsasana

ardha badda padma paschimottanasana

padmasana

marichasana 2

marichasana 3

sarvangasana

supta badda konasana

savasana

III.1 deśa-bandhaś cittasya-dhāraṇā

La concentrazione è fissare la mente in un luogo

III.52 kṣaṇa-tat-kramayoḥ saṁyamād viveka-jaṁ jñānaṁ

Praticando il samyama [l’insieme di dharana, dhyana e samadhi] nell’attimo, e nella successione degli attimi, si arriva alla conoscenza della discriminazione

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