Yoga-in-giro ritorna in Sardegna!

Dal 5 all’11 giugno, saremo per una settimana a San Teodoro, presso l’Hotel Sandalyon, per praticare Iyengar Yoga e condividere le nostre esperienze sullo yoga, la salute e benessere e filosofia tra oriente e occidente.

Siamo già un bel gruppo perché molti dei partecipanti alla settimana di ottobre 2021 hanno deciso di ripetere l’esperienza, oltre tutto in una stagione certamente più favorevole; tuttavia, se qualcuno desidera partecipare, possiamo ancora valutare di inserirl*.

Il nostro programma prevede: 7.30-8.30 lezione di prāṇāyāma; 10-11.30 pratica di āsana; 17-18: letture e conversazioni di filosofia yoga; 18.30-20 pratica di āsana e di prāṇāyāma. La settimana è adatta ai principianti ed intermedi, sono esclusi i principianti assoluti di Iyengar Yoga. Le attività di yoga sono condotte da Emanuela Zanda, insegnante certificata di Iyengar Yoga, livello 2. Inizieremo con la filosofia lunedì 5 giugno e termineremo con la pratica domenica mattina 11 giugno.

Per quanto riguarda le letture e conversazioni di filosofia yoga, si è sempre riscontrato grande interesse da parte dei partecipanti, proprio per l’atmosfera piacevole e rilassante che consente ad ognuno di “uscire dal suo guscio” e di fare le domande che ritiene opportune senza remore. Inoltre lo spirito del gruppo consente anche di confrontare risposte diverse alle stesse domande.

E’ necessario comunque dare un tema ed una scaletta a queste conversazioni, che saranno anche poi riprese nelle lezioni di āsana e di prāṇāyāma. Il tema di quest’anno è yama e niyama, non tanto come “elenco” di regole morali e di doveri, verso gli altri e verso se stessi, ma sul significato di yama e niyama all’interno dello yoga a 8 rami e dell’Iyengar Yoga in particolare. Vorrei soffermarmi soprattutto su tre aspetti:

  1. L’osservanza di yama e niyama fa parte del kriyā yoga, ovvero lo yoga dell’azione. Cercheremo di capire che cos’è l’azione nel cammino dello yoga, in base a quello che dicono Patañjali, La Bhagavad Gita, B.K.S. Iyengar
  2. ahiṁsā, non violenza è alla base dei doveri morali e quindi dello yoga dell’azione. Già ai tempi di Patañjali si era ben compreso come la propensione a risolvere i problemi con la violenza fosse l’origine di tutte le difficoltà in un cammino di evoluzione spirituale.
  3. Da dove nasce la violenza? Dal senso dell’ego o ahamkara. La filosofia occidentale ha esasperato questo concetto, insistendo sulla valorizzazione della libertà individuale. La filosofia yoga riporta l’ego “al suo posto”, nel contesto del Sāṃkhya e gli attribuisce una serie di caratteristiche e di funzioni, che possono evolvere positivamente o negativamente, a seconda dell’atteggiamento verso la vita e la pratica. Si tratta di un tema assai delicato e della massima importanza, su cui vorrei tornare presto, portando proprio il parere di Guruji.

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La traduzione italiana del Commentario degli “Yoga Sutra di Patañjali” di Edwin Bryant

E’ stato un privilegio ed un onore per me collaborare all’edizione italiana, pubblicata dalle Edizioni Mediterranee, di questo testo così importante per ogni praticante yoga e lavorare con Gabriella Giubilaro, Chiara Ghiron ed Edwin Bryant. Il mio lavoro è consistito nel rileggere il testo e suggerire le espressioni più scorrevoli e comprensibili in italiano. Trattandosi di un testo filosofico in cui è arduo trovare una corrispondenza perfetta tra le due lingue (ad iniziare dalla traduzione dei sūtra dal sanscrito all’inglese e quindi all’italiano), il lavoro è stato impegnativo e non breve, si sono dovuti affrontare e risolvere insieme tanti dubbi, come Gabriella ha sottolineato nella prefazione.

img_20191209_163228-e1575908263109.jpgOra che il libro è pubblicato, mi affascina la sensazione di sentirmi solamente un po’ più vicina agli Yoga Sūtra come se non avessi dedicato ad essi ogni momento del mio tempo libero per molti mesi, ma soltanto alcune ore o pochi giorni.  La traduzione ha  contribuito  di sicuro in modo sostanziale alla mia conoscenza del testo ma nello stesso tempo mi ha fatto appena intravvedere la sua complessità.Il titolo inglese dell’opera è “The Yoga Sutra of PatañjaliA New Edition, Translation and Commentary by Edwin Bryant” 2009, Foreword copyright by B.K.S. Iyengar. E proprio Guruji nella sua prefazione sottolinea che il metodo di lavoro scelto da Edwin, spiegare gli Yoga Sūtra con i commentatori precedenti, ne fa il testo di riferimento per gli studenti occidentali che hanno deciso di seguire il cammino dello yoga.  Gabriella osserva: ” In questo modo, il lettore interessato all’argomento, ma che manca di una formazione accademica specifica, può accedere a molti testi importanti in un solo volume”.  Da parte mia, sono stata colpita, proprio rileggendo più volte il testo di Edwin, dalla sua costante e meticolosa ricerca dell’interpretazione più corretta, tenendo conto del fatto che “la nostra comprensione del testo di Patañjali è completamente dipendente dalle interpretazioni dei commentatori posteriori. Questo lascia ovviamente aperta la possibilità che i commentatori abbiano capito male o che, più probabilmente, abbiano reinterpretato aspetti del testo filtrando antiche nozioni attraverso le prospettive teologiche o settarie dei loro tempi”.  Ed è quello che Edwin cerca costantemente di evitare, utilizzando per quanto possibile un approccio fenomenologico, ovvero astenendosi dall’ utilizzare metodi interpretativi moderni sul testo antico di argomento filosofico religioso “in maniera non giudicante e il più possibile neutrale”.

Questo punto di vista  (che contraddistingue il metodo di lavoro di Edwin e quindi tutta la sua produzione scientifica) con il corretto e sapiente uso delle fonti e l’abilità a comunicarle, non sono caratteristiche così scontate, soprattutto pensando alla estrema difficoltà della materia e al pubblico cui è rivolta. Infatti oggi la passione per la pratica yoga “sul tappetino” rischia di lasciare sullo sfondo la finalità dello yoga e la complessità del percorso.  Anche chi desidera studiare ed approfondire si può scoraggiare di fronte ad una materia non soltanto difficile da afferrare e astrusa, per la mancanza di riferimenti alla nostra cultura, ma alle molteplici interpretazioni e “scuole” che tentano di semplificare. Questo sistema non può certo accontentare chi desidera veramente avvicinarsi alle fonti dello yoga.

Con questa lunga premessa, dopo aver lavorato con grande piacere all’edizione italiana di questo testo, mi rendo conto di essere soltanto all’inizio del percorso di studio e comprensione degli Yoga Sūtra di Patañjali; tuttavia, trovo questa sensazione intrigante e non assolutamente frustrante. Ogni piccola scoperta è una grande scoperta.  Ne voglio ricordare in particolare due. 

La prima si trova proprio all’inizio del testo dove Patañjali descrive il primo degli stati mutevoli della mente, pramāṇa: “La conoscenza corretta consiste in percezione sensoriale, logica e testimonianza verbale” (YS, I, 7). La percezione sensoriale è indicata per prima: è quindi la più importante risorsa per acquisire la conoscenza corretta. Qui Patañjali chiaramente mette davanti la diretta testimonianza dei fatti rispetto ad ogni tipo di informazione mediata ed Edwin commenta in questo modo: ” E’ per via di questo orientamento che lo yoga, secondo la mia opinione, è destinato a rimanere fonte di interesse costante per le inclinazioni empiriche del mondo moderno”. In altri termini, Patañjali è estremamente moderno, in quanto lascia alla responsabilità individuale il decidere che cosa è vero e perché. Su questo punto Patañjali ritorna più volte, da vari punti di vista, ma una sintesi magistrale è quella di Edwin nelle Riflessioni Conclusive del volume, quando parla di puruṣa e Libero Arbitrio: l’agentività (libero arbitrio) fa parte delle caratteristiche di buddhi o di puruṣa?  Edwin osserva che il punto di vista di Patañjali sull’argomento è neutro ed alcuni commentatori propendono esplicitamente per negare la funzione di agente a puruṣa mentre una ricca tradizione di studi (tra cui i Vedanta Sūtra) riconosce invece  a puruṣa la qualità di agire. La questione è di importanza basilare, anche rispetto alla disputa con il buddismo, perché non vi sarebbe coerenza con la legge del karma senza riconoscimento al puruṣa del libero arbitrio come agente della propria condizione, argomenta Edwin. E di nuovo Patañjali si svela in tutta la sua attualità!

Il secondo punto -a proposito di interpretazioni e di scuole- è al commento del sūtra III, 29 “Con il samyama sul cakra dell’ombelico si ottiene la conoscenza della struttura del corpo”. Qui molto opportunamente (forse ricordando le domande dei suoi allievi praticanti di āsana) Edwin ricorda che lo Yoga classico di Patañjali non si occupa della fisiologia dei cakra perché l’obbiettivo dello yoga di Patañjali non è quello della teoria per cui la liberazione si ottiene quando l’energia kundalini raggiunge il sahasraracakra sulla cima della testa. Esistono, nella stessa tradizione indiana, autorevoli contaminazioni tra i due sistemi come nell’haṭha yoga ma di base la tradizione yoga è dualistica mentre l’insieme delle tradizioni tantra/sakta  è monistica.

Lo stesso Guruji incidentalmente ricorda la fisiologia dei cakra, che ricorre spesso anche nelle lezioni di Prashant. Tuttavia proprio Prashant precisa che Iyengar Yoga non è assolutamente Haṭha Yoga (cosa che implicherebbe una distinzione tra haṭha e raja yoga) benché ritenga utile insegnare alcuni aspetti illustrati nell’ Haṭha Yoga Pradīpikā, come i bandha, i mudrā e i cakra. (Prashant Iyengar, Yoga and the New Millennium, pp. 20-21).

Patanjali
Statua di Patanjali al RIMYI, il giorno del Guru Purnima (festa di tutti i Guru)

Alla fine, come ricorda BKS Iyengar nella prefazione, lo yoga è una materia di studio pratica e non descrittiva. E proprio la pratica condotta secondo i suoi insegnamenti dà la chiave a mio parere per apprezzare la straordinaria sapienza del testo di Patañjali. Il testo di Edwin dà la possibilità ad ognuno di noi praticanti di āsana, pranayana e meditazione di comprenderlo poco per volta e di inserire questo studio nella pratica quotidiana, verificandone personalmente la corerenza rispetto alle nostre percezioni, sensibilità ed esperienza. Un grande ringraziamento ad Edwin (sperando che presto finisca il suo commento alla Bhagavadgītā!) e a Gabriella.

L’ARDORE (Tapah)

In un percorso simbolico alla ricerca delle qualità della pratica, tapaḥ si riferisce all’elemento fuoco e al chakra del cuore. La forza di tapaḥ purifica il corpo, rende la mente stabile e lucida, elimina il dubbio, induce all’azione. Tapaḥ è una parola talmente intraducibile che può essere interpretata con diversi significati, addirittura opposti secondo la nostra abitudine e sensibilità, autodisciplina/desiderio ardente della pratica. Tapaḥ è uno dei cinque niyamāḥ, doveri verso se stessi, insieme a sauca (purezza), santosa (l’accontentarsi), svādhyāya (studio del sé) e Ȋśvara praṇidhānāni, sottomettersi da Dio. Qui di seguito sono riportati i sutra che si riferiscono a tapah, in cui , secondo la traduzione di Iyengar, il significato va da “desiderio ardente” a “zelo religioso” a “autodisciplina”.

E’ più facile “sentire” con il corpo questa qualità della pratica che comprendere intellettualmente la parola; per questo ho pensato ad una sequenza ispirata a questa qualità. 

  1.  10 minuti di dhyana, meditazione. Seduti in virasana, il bacino appoggiato comodamente su un supporto (tavolette o bolster), oppure in padmasana, siddhasana, swastikasana, occorre permettere al proprio sé di riposarsi nell’assenza dei pensieri. Dhyana non è rinunciare a qualcosa, ma essere talmente ricchi da potersi permettere il lusso di non pensare, concedersi una lunga pausa.
  2. 20 minuti di pranayama. Si può fare riferimento al testo di BKS Iyengar “Teoria e pratica del pranayama” e al fondo, nei programmi di studio, osservare le indicazioni per il corso intermedio, dove Guruji consiglia di praticare lo stesso tipo di pranayama per 20-25 minuti, cambiando ogni giorno.
  3. Savasana per poi entrare gradualmente nella pratica degli asana con uttanasana (testa appoggiata), adho mukha svanasana (testa appoggiata), prasarita padottanasana (testa appoggiata).
  4. Supta padangustasana, 1, 2 e 3, almeno due volte per parte per carcare il controllo e la flessibilità.IMG_3577
  5. Una pratica di vinyasa, lenta e controllata, in cui le asana vanno eseguite con estrema cura dell’allineamento e della stabilità, per almeno 20 minuti, secondo il livello di tapaḥ e il tempo a disposizione. Ad esempio: urdhva hastasana, uttanasana, adho mukha svanasana, utthita trikonasana destra, adho mukha svanasana, chaturanga dandasana, urdhva mukha svanasana, adho mukha svanasana, utthita trikonasana sinistra, adho mukha svanasana, uttanasana, urdhva hastasana, tadasana. Per la qualità di questa pratica, ho trovato di grande utilità le indicazioni di Christian Pisano, La contemplazione dell’eroe, p. 396 ss. “Incantazione della corrente”: “Bisogna badare che queste pratiche di fluidità non portino verso l’agitazione, stando attenti a non lanciarsi nelle posizioni usando movimenti disordinati e caotici. …Il movimento e il radicamento procedono di pari passo”IMG_3575
  6. Ripetere con utthita parsvakonasana, vira 1, vira 2, ardha chandrasana, parsvottanasana, dandasana, paschimottansana, janu sirsasana, ustrasana, baradvajasana (la pratica risulterà di circa 25-30 minuti in questo modo).
  7. Con più tempo e tapaḥ a disposizione, inserire parivrtta trikonasana, parivrtta parsvakonasana, vira 3, parivrtta ardha chandrasana, utthita hasta padangustasana, urdhva prasarita ekapadasana (la pratica risulterà di 40-50 minuti). Con ancora più tempo e tapaḥ a disposizione, inserire triang mukha eka pada paschimottanasana, eka pada badda padma paschimottanasana, pursvottanasana, urdhva dhanurasana (la pratica risulterà di 60-65 minuti)
  8. Sirsasana al muro o alle corde
  9. Sarvangasana con la sedia
  10. Viparita karani
  11. Savasana

Questa pratica regala grande energia e consente di superare le afflizioni (klesa) e gli ostacoli alla corretta pratica dello yoga (Yoga Sutra, I, 31)

2.1 tapaḥ svādhyāya Ȋśvara praṇidhānāni kriyāyogaḥ

Il desiderio ardente della pratica, lo studio di se stessi e delle sacre scritture, l’arrendersi a Dio sono le azioni dello yoga

2, 32

Śauca santoşa tapa svādhyāya Ȋśvara praṇidhānāni niyamāḥ

La pulizia, l’accontentarsi, lo zelo religioso, lo studio del sé e l’arrendersi al sé supremo sono i niyamāḥ

2, 43

Kāya indriya siddhi aśuddhi kşayāt tapasa

L’autodisciplina (tapas) brucia tutte le impurità e accende la scintilla della divinità

Invocazione a Patanjali

“Rendo onore a Patanjali, il più nobile dei saggi, che ci ha donato lo yoga per la serenità della mente, la grammatica per la purezza della lingua e la medicina per la salute perfetta del corpo.  Mi inchino a Patanjali, la cui parte superiore del corpo ha forma umana, le cui braccia tengono una spada, un disco e una conchiglia, ed è incoronato dal cobra con mille teste. O incarnazione di Adisesa, il mio saluto va a te”

Yogena cittasya padena vacam Malam sarirasyaca vaidyakena Yopakarottam prvaram muninam Patanjalim pranjaliranato’smi

Abahu purusakaram Sankha cakrasi dharinam Sahasra sirasam svetam Pranamami Patanjalim

Hari Hey Om”

Cantare qualcosa che non si comprende fa uno strano effetto. A volte stimola la curiosità; ma può anche suscitare un po’ di irritazione. Quando poi si impara l’invocazione, la si ripete con piacere e con devozione. Tuttavia, il sanscrito non è la nostra lingua e pochi sanno davvero che cosa stanno cantando.

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Patanjali è una figura leggendaria, il compilatore degli Yoga Sutra, un testo breve e denso di 196 aforismi, forse risalente al II-IV secolo d.C. (la scrittura; ma il testo è probabilmente più antico).  Questo testo ha avuto molti commenti nell’antichità, poi è stato un po’ dimenticato durante il periodo coloniale; negli ultimi anni è ritornato molto popolare perché tanti occidentali studiano yoga, così si sono moltiplicati gli studi e le traduzioni.  La comunità di  studenti di yoga di BKS Iyengar ha assunto l’abitudine di cantare questo mantra prima della lezione. Il mantra risale forse all’XI secolo, quando uno studioso degli Yoga Sutra, Bhoja, cercò qualche informazione “storica” su Patanjali, riconnettendo alla stessa figura un grande trattato di grammatica della lingua sanscrita.

In sanscrito, Pata significa cadere o caduto, e anjali offerta. Secondo la leggenda, Patanjali è reincarnazione di Adisesa, il Signore dei serpenti  e giaciglio di Visnu e quindi nel mantra prende gli attributi di Visnu: la ruota, la spada, la conchiglia. La descrizione di Patanjali ha lo scopo di suscitare la devozione, descrivendo l’aspetto della divinità, rievocandone l’immagine. Purtroppo, se non si capiscono le parole, questo non avviene. Per la spiegazione dell’invocazione parola per parola, vi invito a leggere questo interessantissimo studio, completo della traduzione (in inglese) di Geetaji Iyengar.

Invece per la pronuncia, vale soltanto l’esercizio. Questa è l’invocazione cantata da Geetaji:

Buona pratica!

 

 

Asana/Dharana. Concentrare l’attenzione

Sabato 24 marzo, in Via Guastalla, dalle 9 alle 12, abbiamo praticato una sequenza di asana e pranayama allo scopo di comprendere dhāraṇā, il sesto “stadio” dello Yoga, la concentrazione

Simbolo di dhāraṇā, la dea Durga,  una madre divina combattente. Mentre l’auriga doveva faticare per mantenere i cavalli del carro (=organi di senso) sulla retta via, e questa è la pratica del pratyahara, Durga cavalca tranquillissimi leoni e tigri addomesticati, mostrando, con eleganti gesti delle molte braccia, i simboli della concentrazione. Dhāraṇā è infatti un “anga” dello yoga di livello superiore e presuppone l’aver già raggiunto una forma di indifferenza verso le cose del mondo. 

Durga-Kavach

Alla concentrazione, dhāraṇā, Patanjali dedica un solo sutra, il primo del vibhūti-pādaḥ  e dicendo che “la concentrazione è il fissare l’attenzione su un punto”. Patanjali non dice “dove” va fissata l’attenzione, ma i commentatori propongono sia oggetti “interni” al corpo, come i famosi chakra, oppure la punta del naso, lo spazio tra le sopracciglia ecc. , che oggetti “esterni”, forme divine, una fiamma, un suono ecc.

Iyengar sostiene che l’attenzione di chi  pratica gli asana è dhāraṇā, da più punti di vista: può essere la concentrazione intensa “degli organi d’azione e i sensi di percezione verso la mente e la mente verso il centro” ma anche “l’arte di ridurre le interruzioni della mente, in modo da eliminarle completamente”. La facoltà della mente che deve intervenire è buddhi, la discriminazione costante, infinitesimale.

Per esercitare dhāraṇā nel corso della pratica degli asana occorre cambiare punto di vista. Fissare l’attenzione è difficile per chiunque, e mantenerla ancora più difficile. Occorre rendere l’esecuzione degli asana “puntiforme”. Non si tratta di “eseguire” posizioni e tanto meno di “praticare” una sequenza. Bisogna  seguire e indirizzare con grande meticolosità, attimo per attimo, il movimento che il corpo/mente esegue, identificando le azioni che si stanno eseguendo; in altri termini, “fissare” l’attenzione e comprendere come la mente indirizza il corpo per entrare, rimanere ed uscire dalla posizione.

IMG_5078Quando pratichiamo un asana, per esempio ardha chandrasana, l’attenzione normalmente si muove velocemente su differenti punti del corpo mentre eseguiamo i diversi passaggi che ci portano alla posizione finale. Con la concentrazione, oltre a questo,  possiamo scegliere infiniti passaggi intermedi  in cui fissare l’attenzione. In ogni passaggio occorre eseguire una breve pausa, fissare l’attenzione ed identificare le azioni che il corpo sta facendo/deve/dovrebbe fare. Ad esempio, utthita trikonasana/utthita parsvakonasana/avvicinare la gamba dietro mantenendo l’allineamento della gamba davanti/alzare la gamba dietro con la gamba sotto piegata/stirare la gamba sotto/l’interno della coscia sale e la caviglia scende/portare l’esterno della coscia della gamba sotto indietro/ruotare il bacino verso l’alto/ruotare il torace verso l’alto/guardare il soffitto e ritornare seguendo gli stessi passaggi.

Per posizioni complesse, come parivrtta parsvakonasana, parivrtta ardha chandrasana è possibile individuare un numero ben maggiore di passaggi/momenti/luoghi/azioni.

Operare in questo modo è indispensabile per imparare asana più complicate e avanzate, o che richiedono l’utilizzo di azioni già sperimentate e praticate in asana più semplici.  Ad esempio, per imparare padmasana, è necessario aver appreso l’azione di rotazione della coscia verso l’esterno di Janu sirsasana.

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Questa la sequenza praticata:

Utthita parsvakonasana

ardha chandrasana

parivrtta trikonasana

parivrtta parsvakonasana

parivrtta ardha chandrasana

adho mukha svanasana

sirsasana

virasana

Janu sirsasana

ardha badda padma paschimottanasana

padmasana

marichasana 2

marichasana 3

sarvangasana

supta badda konasana

savasana

III.1 deśa-bandhaś cittasya-dhāraṇā

La concentrazione è fissare la mente in un luogo

III.52 kṣaṇa-tat-kramayoḥ saṁyamād viveka-jaṁ jñānaṁ

Praticando il samyama [l’insieme di dharana, dhyana e samadhi] nell’attimo, e nella successione degli attimi, si arriva alla conoscenza della discriminazione

Mantenere il cervello passivo nel pranayama e in savasana

(puntata precedente) La radice del naso è un punto da osservare con cura durante il pranayama.  Anche i lati del naso, verso le guance, sono punti chiave, perché rivelano se il cervello è completamente passivo. Nel momento in cui globi oculari, radice del naso e guance tendono a salire, questo significa che il cervello non è passivo.  Osservate la punta superiore dello sterno, questo è il “cervello” nel pranayama.  Non create rigidità in questo punto.

Quando si porta la testa giù, l’arroganza si posiziona nella parte alta delle scapole.  Occorre connettere la parte alta della schiena con la parte bassa della schiena che muove verso il pavimento.  Sentite gli ischi, per aggiustare gli ischi muovete il cingolo pelvico, non il torace.  Lo spazio tra il perineo e i muscoli dei glutei deve essere uguale. Muovete il perineo in avanti.  Provare, ujjyai per 5 minuti in questo modo. Chiudete gli occhi, testa giù. Gli occhi vanno verso gli zigomi. Quando inspirate, non muovete gli occhi, non muovete la pelle. La parte superiore dello sterno non sale, si apre orizzontalmente. Quando espirate invece, dovete alzare più in alto i due lati dello sterno. Nell’espirazione, dalla periferia occorre raggiungere l’etere.  Gli occhi rientrano più profondamente.

Nel prossimo ciclo osservare il rapporto tra lo sterno e il perineo durante l’inspirazione. Alla fine dell’inspirazione, le clavicole si aprono come in sirsasana e durante l’espirazione il lato superiore delle clavicole resta alto e connesso con la colonna.  Lo spazio sotto le clavicole non si deve afflosciare, chiudere. L’intelligenza deve raggiungere lo spazio interno. Per ottenere questo, durante l’espirazione, l’osso pubico non deve inclinarsi verso il basso.

Nel prossimo ciclo, inspirando osservare la punta superiore dello sterno, si deve muovere come in ustrasana.  Dalla colonna cervicale è come se si muovesse un ago che solleva la punta superiore dello sterno. Quindi non lasciate che la colonna cervicale diventi egoista, arrogante. Nell’espirazione, il suono scompare lasciando il silenzio dello spazio interno.

Nel prossimo ciclo, osservate la vibrazione che è la caratteristica dell’etere. Quindi  inspirando sentite l’aria, l’acqua e lentamente proseguite fino a quando raggiungete la terra.  Non bloccate l’interno dell’orecchio nell’inspirazione: se questo avviene, significa che il cervello è rigido. Mantenere l’interno dell’orecchio più sottile possibile. Quando espirate, osservate attentamente i lati esterni del diaframma, devono andare verso il centro e raggiungere l’etere senza che la sagoma del corpo si afflosci o si modifichi. La parte alta del torace, nell’espirazione, fa tadasana.  Non lasciate che prevalga la prepotenza della parte posteriore, delle spalle. Il dietro va aggiustato dalle clavicole che restano parallele.

Se riuscite a mantenere la stabilità delle radici, potete migliorare; altrimenti, il vostro corpo si inclina all’indietro e nemmeno vi accorgete.  Mantenete la connessione tra il coccige e i due lati del torace.  La pesantezza si può sentire nella parte alta del torace, sia che siate seduti diritti che no. Muovete alll’interno la colonna cervicale e toracica e sollevate i due lati del torace.  La colonna cervicale va verso le clavicole e ammorbidisce la pelle, la massaggia.

Mantenete la radice della lingua all’interno, senza disturbare la gola, per mantenere la purezza del respiro. Dal prossimo ciclo, durante l’inspirazione, osservare la pelle dell’ascella, non deve essere costretta.  La pelle del lato interno delle braccia deve continuare a ruotare in avanti, non deve scendere. Quando eseguite il pranayama, anche gli occhi si muovono verso i polmoni, l’occhio destro e l’occhio sinistro vanno ad osservare il polmone destro e sinistro. In particolare, quando si espira, l’osservazione è più evidente. Equilibrare. Come ha detto Prashant, il sentire è equanime. Non c’è indirizzo.

Ora rialzate la testa. Come sentite le tempie? Sono pesanti, o non si avvertono? Se sono pesanti c’è ancora qualcosa di sbagliato. Come sentite la gola? Il lato sinistro, il lato destro della gola? Se li sentite diversi, la testa non era perfettamente dritta. Dovete andare dal generale al particolare e chiedervi perché c’è libertà in un punto e non nell’altro.

Savasana. Imparare questo modo di osservare è la cosa più difficile, occorre essere maestri e allievi allo stesso tempo.  Bisogna sincronizzare ciò che state facendo e ciò che state imparando. Rilassate gli occhi, gli inguini, in modo che il respiro segua gli occhi. Portate i muscoli dei due lati della schiena paralleli. I lati esterni dell’osso sacro devono toccare terra, così tutta la colonna si rilassa. Anche in savasana, la colonna toracica deve muovere in dentro, tutta la pelle della schiena parallela al pavimento.  Osservare le scapole, come dicevo prima, questa è la parte prepotente, la pelle delle scapole non deve andare verso il collo, ma allargarsi parallela al pavimento. Osservare la pelle delle ascelle, piegate i gomiti, allungate la pelle dell’ascella verso i gomiti, poi stendete le braccia di nuovo. Ora portare l’attenzione sul respiro, semplici inspirazioni e espirazioni e verificare se c’è libertà nei due lati del torace. Ruotare la parte esterna delle braccia verso il basso, e quindi il lato interno dei polsi verso l’alto. Ora inspirare, osservare i pollici e i polsi, devono rimanere passivi e rilassati. Dovete esplorare tutte le possibilità per eseguire l’azione corretta. Osservare di nuovo gli occhi, sono vicino alle guance o al cervello? Se gli occhi salgono verso il cervello, non state facendo savasana per niente. Se gli occhi sono davvero passivi, scendono verso gli zigomi, il cervello è passivo ed è savasana.

 

Sviluppare tolleranza attraverso lo yoga

di Zubin Zarthoshtimanesh

Oggi che lo yoga è diventata un’industria miliardaria e che promette di correggere e migliorare qualsiasi aspetto dell’esistenza, dai problemi fisici alle conseguenze di stili di vita disordinati, è ancora più importante comprendere il suo vero  potenziale e vedere come sviluppare non soltanto la salute del corpo fisico, ma anche tolleranza e saggezza.

L’essere umano “sociale” è una creatura piuttosto tollerante (ndr: e il suo successo sul pianeta dipende proprio dalla sua adattabilità). Tutti noi sopportiamo parecchio nella vita, ma questo non significa che stiamo evolvendo. La tolleranza deve essere unita ad altre qualità come la pazienza, l’autocontrollo, la serenità, la calma, il perdono, la conoscenza, la determinazione e la compassione.

bhishma-ashtamiQuesto è spiegato dalla storia della vita di Bhisma, uno dei più popolari eroi della mitologia indiana. Voi conoscete l’incrollabile voto che Bhisma fece nel Mahabharata: decise che non si sarebbe mai sposato e alla fine rinunciò ai suoi diritti al trono del regno di Hastinapura. Chi conosce la storia sa bene che Bhisma non soltanto tollerò la sua vita così come si era votato a condurla, ma compì scrupolosamente ogni suo dovere. Anche nella Gita si ricorda che non dobbiamo essere legati ai risultati e ai frutti delle nostre azioni: la cosa più importante è che la qualità dei risultati o dei frutti non sia compromessa in alcun modo. Non essere attaccato ai frutti, e l’albero produrrà, con una incrollabile perseveranza, i frutti della qualità più alta.

Dobbiamo non soltanto imparare a tollerare, ma anche trasformare questo “sopportare” in modo tale che ci porti ad uno stato differente e più elevato. Sul letto di morte (un letto di frecce!) Bhisma recitò uno straordinario commentario sulla filosofia, la morte, la vita, che ci è pervenuto sotto il nome di Shanti Parva, il XII libro del Mahabharata. Quindi la sua tolleranza, lungi dal provocare amarezza,  lo portò all’evoluzione fino allo stato di sthitapragnya (ottenimento della più completa saggezza). Come sapete, anche noi siamo in grado di sopportare grandi dolori, però poi cosa succede subito dopo? Crolliamo  e alla prima occasione siamo capaci di esprimerci in modo supercritico, impaziente e offensivo.

Ci può essere un esempio più grande di Gesù Cristo? Non soltanto sopportò dolore fisico e umiliazione, ma si rifiutò di criticare i suoi aguzzini persino sulla croce: “Perdonali, Signore, perché non sanno quello che fanno!” .

Questo principio è molto importante per capire il concetto di tolleranza. Essenzialmente, alla fine una persona diventa intollerante perché “non sa”.  In altre parole, la conoscenza (jnana) è di grande importanza. Studiare per un esame è un tipo diverso di conoscenza rispetto alla conoscenza di vita. La conoscenza spirituale inizia dove termina l’educazione “ufficiale”. Nella vita, non è solo l’evoluzione intellettuale ma anche la conoscenza del cuore che rende le persone evolute, sensibili e consapevoli come esseri umani.  L’intelligenza delle emozioni è immortale, ampia e forte. L’intelligenza intellettuale (vitarka e vichara) cresce come l’albero delle noci di cocco: benché molto alto, non riesce a fare ombra a chi è sotto.  Invece l’intelligenza delle emozioni, essendo forte e grande, accoglie,  offre riparo, e aiuta molte persone con la compassione e l’amicizia. Ed è questa la ragione per cui, in tutte le le culture,  la tolleranza è definita come il punto di partenza per la spiritualità.

Il saggio Patanjali, che si dice sia vissuto 2000 anni fa, ha riassunto l’antica saggezza con l’emancipazione del sé nei 196 Yoga Sutra, letteralmente “fili” di saggezza logica.  Nella prima parte, Patanjali afferma “maitri, karuna, mudita, upekshanam sukha duhkha punya apunya visayanam bhavanatah citta prasadanam” (YS,  I, 33). In questo sutra, Patanjali elenca le qualità che occorre coltivare per sviluppare l’intelligenza del cuore: amicizia, compassione, contentezza, indifferenza. Queste qualità devono essere in equilibrio con lo sviluppo in verticale dell’intelligenza intellettuale, portata da vitarka, vicara, ananda e asmita (pensare analitico, ragione, felicità, senso dell’io). Quindi, la tolleranza, nella terminologia dello yoga, è la somma di:  amicizia, compassione, contentezza e indifferenza con il “senso dell’io”, che agisce da contrappeso. Patanjali ci insegna come evitare l’esaltazione dell’auto realizzazione –atma darshana- e come mostrare indifferenza per questo.

Tolleranza non è il semplice sopportare un nemico sgradevole; occorre gradualmente coltivare il sentimento con il quale le qualità ricordate possano sviluppare l’intelligenza delle emozioni per progredire nella consapevolezza del sé. Quindi inizialmente si svilupperà la tolleranza, ma gradualmente si dovranno sviluppare anche le qualità della compassione e della contentezza, in modo che la tolleranza e l’accettazione diventino la naturale condizione dell’essere.

La tolleranza può anche essere compresa attraverso i tre gunas. Limitarsi a tollerare qualcosa può essere tipico di tamas. Per esempio, molte persone dicono di tollerare il dolore, ma subito diventano sconfortate e di cattivo umore. Arriva la qualità di rajas: è come la madre che tollera il suo bambino, ma lo educa in modo molto severo per la sua educazione e sviluppo. Una natura “sattvica” consiste nel semplice continuare a vivere secondo il proprio dharma (disponibilità verso i propri doveri). Ma prima occorre trovare la propria strada e seguirla con costanza. Prendete cosa avvenne nel 1948, quando Gandhi intervenne nei disordini nella piccola città di Noakhali nel Bengala. Fu chiamata la polizia ma non riuscì a fermare la rivolta.  A quel punto Gandhi arrivò sul posto, era una situazione incontrollabile. Ma la sua sola presenza funzionò. Fu dichiarata la tregua subito e la pace continuò fino oltre alla sua morte. Quindi un santo non si limita a tollerare, ma sprigiona calma dal suo interno; così la tolleranza diventa una realtà anche per gli altri.

Coltivare la tolleranza attraverso le Yogasana

Le asana e il pranayma che impariamo e pratichiamo nello yoga hanno la potenzialità di sviluppare in voi qualità come la tolleranza, la pazienza, l’osservanza dei doveri e altre virtù. Ma il problema è che noi ci concentriamo solamente sull’obbiettivo dei benefici (fisici) degli asana. Per esempio, molti praticano yoga per perdere peso, per vincere la pigrizia, o per combattere il diabete. Ma rimanere in asana come Sirsasana o Halasana vi può aiutare a sviluppare capacità di sopportazione, calma e pazienza. Setubandha Sarvangasana non soltanto rigenera il cervello, ma vi regala quiete interiore. Infatti ogni pratica di purificazione, lavora attraverso i panchakosas.  Cosa sono i panchakosas? Secondo la filosofia yoga, siamo divisi in panchakosas, i cinque strati del séanamaya (corpo fisico), pranamaya (corpo energetico), manomaya (strato psicologico), vijnanamaya (strato dell’intelligenza) e infine  anandamaya (corpo di beatitudine).

Spesso la nostra pratica resta limitata a anamayakosa. La bellezza dello yoga e degli asana che pratichiamo ci danno modo di accedere ai livelli superiori della mente e delle emozioni attraverso ogni parte del corpo.  Qualcosa di molto fisico come lo stirare le ginocchia o l’aprire il torace con le posizioni indietro non ha solo un impatto fisico ma trasforma la vitalità della mente. Questo è il motivo per cui gli asana devono essere eseguiti in modo tale da integrare con piena consapevolezza il corpo, la mente, il respiro e i sensi.

Patanjali dice “Balesu hasti baladini,” (YS, III, 25), che significa che con il samyama, lo yoga svilupperà la resistenza fisica e la forza di un elefante. Come sapete, gli elefanti, oltre alle loro caratteristiche fisiche, sono riconosciuti per la loro memoria e tolleranza. La forza è di solito intesa dal punto di vista fisico, ma l’elefante è il perfetto simbolo anche della pazienza. Quindi, dobbiamo imparare a penetrare i nostri kosas attraverso la pratica yoga per acquisire forza e resistenza, da vari punti di vista.

Zubin Zarthoshtimanesh ha studiato sin da quando era ragazzo con BKS Iyengar. Ringrazio Zubin per aver consentito la traduzione. Questo articolo era stato pubblicato sul sito dell’Associazione Iyengar Yoga degli Stati Uniti. 

 

 

 

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