Non sappiamo esattamente quanto antico sia lo yoga; quindi non esiste una unica definizione di yoga. Tutti sappiamo che la radice sanscrita della parola significa unire, attaccare, e da essa sono derivate le parole prima latine, poi italiane di giogo e unione. Secondo BKS Iyengar, yoga significa dirigere la propria attenzione alla ricerca della suprema verità; ma anche significa unire la volontà individuale con quella divina. Il Maestro si chiede: quando una scienza, ad esempio, la chimica, fu scoperta, la definizione e la comprensione della materia erano le stesse di oggi? Certamente no. Se oggi sentiamo parlare di “chimica” sappiamo immediatamente a cosa ci si riferisce. Però se guardiamo alla storia della scienza, possiamo vedere come è stato lungo il percorso per rendere noto qualcosa che prima era sconosciuto.
Secondo la tradizione indiana, i saggi cercarono una soluzione, avendo compreso che l’oceano dei desideri umani era senza fine e che la mente doveva trovare un modo per sentirsi libera da questa costrizione insopportabile. Non ci fu quindi una definizione della materia all’inizio; successivamente, quando con l’esperienza si crearono metodologie e tecniche di pratica, si tentarono anche le definizioni. Come nell’esempio della chimica, se vogliamo capire, dobbiamo considerare quanto è stato lungo il percorso di ricerca.
Quando ora vediamo le diverse definizioni di yoga dei Veda, Upanisad, Yoga Sutra e Bhagavad Gita, comprendiamo come la disciplina sia cambiata a seconda dei bisogni della società e della capacità di discriminare dei praticanti e studenti.
Un testo visnuita composto durante il primo millennio d.C., forse intorno al 300 d.C., il Ahirbudhanya Saṃhitā, fornisce una definizione di yoga molto chiara, che è quella ancora oggi più utilizzata: “Lo yoga è l’unione tra l’anima individuale e l’anima universale”. E’ stato questo un momento di grande importanza per la storia e la filosofia indiana, in cui furono scritti i testi di riferimento.
Appena un poco più tardi, nella Bhagavad Gita, il dio Krishna si rese conto che la volontà umana era in fase di debolezza, e quindi dovette rendere più facile e comprensibile il cammino. Definì quindi lo yoga a due livelli, conoscenza e azione. “Lo yoga è equanimità”; “Lo yoga è eccellenza nell’azione”. Secondo BKS Iyengar, l’equanimità deve venire dalla intelligenza dell’anima e l’intelligenza della consapevolezza. L’anima, con citta (la mente), i karmendriyas (orgari di azione), i jnanedriyas (organi di percezione), ahamkara (senso dell’io), buddhi (intelligenza): tutto questo deve essere integrato e unificato con lo yoga. A questo punto, l’anima è ovunque e chiunque viene trattato con equanimità. Per quanto riguarda “l’eccellenza nell’azione”, Krishna non sta dicendo di agire senza un fine, ma di eliminare i motivi egoistici. Nel momento in cui l’egoismo interviene, l’azione è contaminata. L’azione sicuramente porterà dei frutti, ma non è questo il motivo per cui bisogna agire. Il nostro compito è quello di eliminare l’aspetto egoistico e utilitaristico dall’azione. Guruji approfondisce su questo aspetto, che è difficile da comprendere e da far comprendere. E’ impossibile fare un’azione senza uno scopo, ma è possibile farla senza ambizione. Avere uno scopo ed essere ambiziosi non sono la stessa cosa; lo scopo può essere di ottenere benefici universali, per tutti, invece l’ambizione ha sempre uno scopo egoistico e una finalità egoistica.
La parola “eccellenza” ha il suo corrispettivo nella pratica e nella rinuncia. Krishna non dice di rinunciare all’azione, tutt’altro; ma di agire rinunciando ai frutti dell’azione. “Eccellenza” è il modo di agire libero da ambizione e egoismo. Quindi, la definizione dell’ Ahirbudhanya Saṃhitā si esprimeva in termini di bhakti (devozione), mentre quella della Bhagavad Gita in termini di karma (azione).
Infine, vediamo come Patanjali definisce lo yoga. Al tempo di Patanjali, era necessaria una maggiore raffinatezza concettuale, perché ancora non vi era chiarezza su cosa fosse citta e cosa fosse anima, atman. Così Patanjali definisce lo yoga in due modi: prima come disciplina e poi come fermare le fluttuazioni e modificazioni mentali. Questi sono i primi due sutra della sua opera. Il suo trattato è pratico, e in questo modo Patanjali definisce sia la pratica che la rinuncia.
Dopo tanti anni dobbiamo guardare, dice BKS Iyengar, a questa disciplina pratica in modo nuovo perché pratica e rinuncia sono troppo pesanti per i tempi in cui viviamo. Le persone si vantano di praticare yoga, anche se in realtà praticano pochissimo. Questa è la mentalità moderna, vantarsi molto e fare poco. C’è interesse per lo yoga, ma non c’è profondità. E’ necessario un incentivo. E allora, ragiona Guruji, io farei una piccola modifica alla definizione: ” Lo yoga è il fermare i dolori della mente”. Tutti noi soffriamo di dolori, fisici e mentali, abbiamo dispiaceri e motivi di tristezza; ma questo non vuol dire che si debba praticare yoga solo per risolvere problemi. Patanjali invita la nostra sensibilità e attenzione a guardare alle cause dei dolori e delle malattie, che è sempre dentro di noi, nascosta nei nostri comportamenti, abitudini, carattere, attitudine mentale. Infatti, sempre Patanjali ammonisce: “i dispiaceri che non si sono ancora manifestati, possono essere evitati”, ovviamente con la pratica yoga.
Anche Krishna aveva ricordato che i dolori possono essere evitati regolando la qualità e quantità di cibo, azione, sonno ecc. Con una vita regolata ed equilibrata, la pratica yoga si inserisce armoniosamente. Comunque, tutti vogliamo evitare il dolore, ma l’analisi non è sufficiente. Dobbiamo trovare la radice del dolore nascosta nel samskara. E’ questa una parola di denso significato: vuol dire l’accumulo delle azioni del passato e il coltivare se stessi in questa vita. Benché cerchiamo di coltivare buoni pensieri e buone azioni, i comportamenti del passati lasciano come impronte. Se vogliamo proseguire il cammino dello yoga, occorre fare due cose, coltivare nuovi samskara che lascino impronte positive e sradicare i samskara sbagliati del passato. Non è facile. Le impronte sono radicate profondamente nel cuore e lasciano dei semi, i semi creano alberi che producono frutti. Questo è il ciclo inesauribile delle nostre vite. Ma lo yoga è l’unico mezzo con cui si possono curare le ferite nel cuore portate da samskara sbagliati. La pratica produce impronte positive speciali, “yogiche”, libere da paura e capaci di neutralizzare le impronte negative presenti. Questo è ciò che dice Patanjali parlando di pratica e di rinuncia.
Questo ci dà infine un’altra definizione di yoga: “Lo yoga frena le modificazioni dei samskara“. Nel cammino dello yoga, resta poi un’ultima impronta, la luce della saggezza che distrugge tutte le altre impronte negative, fino a quando anche questo samskara, positivo, ma pur sempre samskara, diventa inutile e si crea la luce completa. C’è una parola bellissima, Rtambhara, che non si pò esattamente tradurre. Significa dimorare nella verità. Prajna significa invece consapevolezza intelligente. Si trattare più alto livello di intelligenza. Per questo dico: ” Lo yoga ferma le fluttuazioni del samskara“
(Questi appunti sono ricavati da BKS Iyengar, Light on Ashtanga Yoga, 2° ed., Mumbai, 2012, in particolare le pp. 15-27)