La pratica personale nello yoga. Alcune riflessioni

Abbiamo dimenticato le lezioni “in presenza”, condivise e affollate di tante persone. Chissà quando sarà possibile praticare di nuovo con i tappetini uno vicino all’altro. Ci siamo abituati a seguire le lezioni da remoto, che hanno pregi e difetti. Ma chi pratica yoga regolarmente ha sicuramente approfondito il discorso della pratica personale: all’inizio con le sequenze per il sistema immunitario, poi con il pranayama e la meditazione, poi in modo di continuare l’aggiornamento anche per essere abbastanza “freschi” da poter fare lezione da remoto. Almeno, così ho fatto io, con tanti altri insegnanti.

In questo periodo difficile, è necessario motivare le persone a coltivare la loro pratica personale. Chi non ha mai praticato da solo dovrebbe iniziare, e chi pratica solo qualche volta dovrebbe essere più costante. Chi già pratica dovrebbe aggiungere il pranayama e la meditazione regolarmente. Lo yoga è un percorso e va incrementato. Siamo fortunati ad avere questo strumento per rendere il corpo più adattabile e forte, la mente più flessibile e rilassata. Di spirito di adattamento, in questo periodo, c’è grande necessità. E anche di salute, fisica e mentale.

Che cos’è esattamente la pratica personale nello yoga?

Gli Yoga Sutra rispondono molto chiaramente a questa domanda: II.1 tapaḥ-svādhyāyeśvara-praṇidhānāni kriyā-yogaḥ, Kriyā-yoga, il cammino dell’azione, è costituito da autodisciplina, studio e devozione al Signore. Possiamo intendere benissimo Kriyā-yoga con pratica personale, l’azione, quello che si fa tutti i giorni. Ora, autodisciplina e studio non hanno bisogno di essere spiegati: senza autodisciplina non c’è alcuna azione, nessuna pratica; per lo studio esistono infiniti testi, libri, siti internet, lezioni registrate, video: l’imbarazzo della scelta.

Invece, devozione al Signore richiede una spiegazione per evitare equivoci. Secondo la filosofia indiana l’uomo NON è il centro dell’universo, ma partecipa della immensità dell’universo. La sua finalità è il distacco dalla condizione di instabilità e sofferenza del mondo in cui viviamo, dove ogni azione ha una causa e un effetto. Questo è difficile da comprendere per gli occidentali perché la nostra filosofia occidentale è esattamente l’opposto, è rivolta alla valorizzazione dell’individuo singolo, della sua libertà di scelta, dei suoi diritti, del suo percorso intellettuale.

Quindi per praticare yoga con profitto occorre per prima cosa avere consapevolezza che il nostro obbiettivo non è quello di dimostrare qualcosa, ma di raggiungere uno stato di salute, fisica e mentale; non si tratta di fare semplice esercizio fisico o di assumere un atteggiamento competitivo, anche con noi stessi. Poiché si tratta di un principio che esula dalla nostra formazione e cultura occidentale, non è facile da acquisire. Nella pratica yoga è utile avere un atteggiamento umile, da osservatore.

“Il corpo è il mio tempio e le asana le mie preghiere” (BKS Iyengar): c’è qualcosa di ritualistico nella ripetizione delle posizioni, delle sequenze, il nostro corpo e la nostra mente devono diventare una materia di studio. Al limite, la pratica non è qualcosa che “si fa” ma che “accade”

Dove, quando e per quanto tempo praticare

Queste sono indicazioni che si trovano sui libri prima delle sequenze. Però sono anche gli aspetti su cui spesso gli studenti si bloccano, quindi vale la pena di dedicare qualche parola o leggere un libro sull’argomento. Si può praticare dovunque, ma per una pratica regolare e disciplinata il posto migliore è casa propria, e in particolare un luogo della propria casa da dedicare esclusivamente alla pratica. Non è necessario tanto spazio, bastano pochi metri quadri vicino ad un muro libero. Abbiamo a volte la casa piena di oggetti inutili, quindi occorre fare delle scelte e liberare un po’ di posto. Per quanto riguarda il tempo, il momento migliore è il mattino, dopo aver preso un tè o un caffè ma prima della colazione. Per chi non ha mai praticato da solo, se si riesce a dedicare 30-40 minuti, è un ottimo inizio.

In che cosa consiste esattamente la pratica

E’ meglio che siano gli Yoga Sutra a spiegarlo con gli otto “anga” dello yoga

I tre “anga” principali, con riferimento all’Iyengar Yoga, sono asana, pranayama e dhyana. Questo è quello che andrebbe praticato regolarmente, quotidianamente. Se siete un principiante, che non ha mai praticato da solo, chiedete al vostro insegnante. In questo caso, 15 minuti al giorno di asana attive, 10 di asana passive e 5 di savasana può essere un buon inizio. Savasana sostituisce il pranayama e la meditazione.

Se siete uno studente intermedio, che pratica Iyengar Yoga da più di due anni ma che ancora non si è consolidato nella pratica personale, cercate delle sequenze adatte al vostro livello e divertitevi a comporne delle nuove. In questo caso 30 minuti di asana attive, 10 minuti di asana passive compreso savasana, 10 di pranayama e 10 di meditazione è lo schema giusto. Se non avete un’ora al giorno da dedicare alla pratica, privilegiate il pranayama e la meditazione sugli asana, che si potranno anche eseguire a giorni alterni.

Non tutte le persone hanno lo stesso livello di energia, rispettate il vostro e non fate di più di quello che potete, ma nemmeno di meno. La pigrizia è il peggior nemico della pratica personale. Dedicate questo tempo ad osservarvi dall’esterno, osservate il corpo, la mente e il respiro. Usate un timer per il tempo in cui decidete di stare in un determinato asana. Osservate soprattutto il momento in cui la mente si “irrita” per la noia o la fatica e cercate di capire dove nasce questa reazione. Forse in quel momento il corpo, la mente e il respiro hanno avuto difficoltà ad andare d’accordo “come i componenti di una famiglia”.

Praticare da soli è diventare “maestri” di se stessi. Il Maestro è il guru, chi porta dal buio alla luce; l’insegnante trasmette semplicemente delle informazioni. Ma se praticate da soli, il vostro compito non è di trasmettervi informazioni, ma di auto-accompagnarvi in un percorso. Potete cambiare insegnante, ma voi sarete sempre il vostro guru.

L’augurio è che la pratica personale dello yoga contribuisca ad un percorso verso la luce….

Meditazione: iniziare il prima possibile e continuare….

Vacanze o meno, a volte la tensione della vita è tale da non riuscire a fermare la testa. Sembra che in ogni istante si debba risolvere un qualche problema, che in ogni istante ci siano cose da ricordare. Meditazione è semplicemente concedersi il lusso di non pensare a nulla.

Perché in primavera o estate? Gli impegni sono minori, il clima è più rilassato, anche se le lunghe ore di luce ricordano che ci sarebbe molto da fare. Infatti l’estate passa velocemente e magari si nota di non aver poi fatto nulla di speciale. Per questo l’estate è perfetta per la meditazione ed è il momento ideale per iniziare se ancora non si è stabilita questa abitudine. Non c’è pratica più “speciale” della meditazione.

Dhyana, secondo la filosofia yoga,  è l’attività volta a espandere in modo uniforme l’intelligenza; il primo passo (dopo dharana, concentrazione) è il fermo fluire dell’attenzione verso la stessa area, o punto.

YogaSutra, III.2 tatra pratyayaika-tānatā dhyānam

Ekatānatā è la parola chiave di dhyana, secondo BKS Iyengar. Il flusso di attenzione deve essere fermo e ininterrotto, ma al tempo stesso uniforme. Non c’è pigrizia, non c’è noia. Non è semplice concentrazione, ma “attenzione all’anima, dall’anima, per l’anima”. L’anima, atman, è diversa da quello che intendiamo nelle religioni occidentali. Atman è pura consapevolezza, al di fuori delle modificazioni della realtà materiale. Anche l’intelligenza e l’attenzione fanno parte della realtà materiale, ma sono quanto di più vicino abbiamo alla pura consapevolezza. In dharana e dhyana occorre rimanere concentrati sull’interno di sé, e interrompere gli altri flussi di pensieri disturbanti, o almeno, all’inizio, saperli riconoscere e prendere distanza.

 

YogaSutra, IV, 6 tatra dhyānajam anasayam

La mente di chi pratica yoga deve essere portata alla calma originaria e al silenzio. Questo pone fine ai condizionamenti mentali e libera dal coinvolgimento degli oggetti. Numerosissimi studi scientifici hanno dimostrato l’efficacia della meditazione per ridurre il cd. stress, migliorare la qualità del sonno, ma soprattutto migliorare la qualità della vita! Perché chi si abitua a meditare, dopo breve tempo, “prende la distanze” da ciò che succede e diventa meno incline al nervosismo: in altri termini, si avvicina all’obbiettivo dello yoga.

cadf0f7d2cd7e183d4d85a9ba5866607--patanjali-yoga-mindfulnessQuesti effetti, addirittura, sono misurabili in breve tempo, come ha dimostrato, ad esempio, uno studio recente, dove sono stati confrontati i risultati tra persone che avevano meditato durante un workshop di una settimana rispetto a persone che non avevano svolto questa attività. I cambiamenti sono, in così poco tempo, molto significativi, perché con la meditazione si attuano modificazioni  profonde nella struttura mentale.

Un altro studio ha avuto come protagonisti ragazzi della scuola superiore e i loro insegnanti, nell’ambito di una attività promossa dalla Fondazione David Lynch, pubblicata sul supplemento di Repubblica. Un gruppo di 80 persone volontarie ha meditato per tre mesi, due volte al giorno, per 15-20 minuti; i risultati sono stati confrontati, con esiti stupefacenti, con quelli di persone che che non avevano svolto alcuna attività. Insomma, pare che Patanjali avesse assolutamente ragione: praticare samyama (dharana, dhyana, samadhi) consente di liberarsi dalle contingenze della vita, acquistare serenità e capacità di giudizio; in altri termini, superare l’ignoranza che viene dalla veduta particolare e soggettiva delle cose.

Geeta Iyengar ricorda che lo strumento della meditazione è il corpo, che deve essere precedentemente fortificato con la pratica regolare di asana e pranayama.  La meditazione non si insegna, si pratica: su questo anche Guruji era tassativo. Non si pratica in gruppo e quindi non si può insegnare nelle classi, si deve praticare individualmente. Il consiglio è iniziare con 10 minuti, al mattino presto, prima del pranayama; successivamente si potrà aumentare il tempo. Personalmente ritengo sia molto utile anche una meditazione a fine giornata, della stessa durata della mattina. In “Yoga per la donna”, Geetaji insegna in modo molto preciso quale deve essere la posizione e l’atteggiamento mentale nel corso della meditazione. Sono pagine di saggezza. Chi non desidera per ora iniziare la meditazione, dovrebbe comunque leggerle e lasciare sedimentare l’impressione di questo insegnamento, da cui traspare una conoscenza di immensa profondità.

 

 

Bibliografia consultata:

BKS Iyengar, Gli antichi insegnamenti dello Yoga, I sutra del grande maestro Patanjali, Ed. Italiana Futura, 1977.

BKS Iyengar, Light On Astanga Yoga, 2° Ed., Mumbai, 2012

Geeta Iyengar, Yoga per la donna. Roma, 1992.

 

Il cammino della devozione: Asana/Samyama (da una lezione di Geetaji)

Nel seminario del 23 giugno abbiamo affrontato la tappa più difficile: Il percorso della devozione: Dharana, Dhyana, Samadhi. Sono gli “anga” più elevati, tre fasi, per così dire, del percorso meditativo: in Dharana, la concentrazione è ancora intermittente, sebbene molto allenata e sorretta da fede profonda, in Dhyana, il flusso dell’attenzione scorre senza disturbi e senza pause; in Samadhi, il livello di attenzione è tale che la persona che medita si identifica completamente con l’oggetto della meditazione, il vero sé.

Guruji si è espresso molte volte su Dhyana e ha affermato che la pratica della meditazione vera e propria non si esegue in classe, ma ognuno la deve praticare individualmente. In classe si praticano Asana, Pranayama e  Dharana, alla ricerca di quel flusso ininterrotto che permette allo sforzo fisico di annullarsi nella pura concentrazione.

Geetaji ritorna spesso su questo argomento nelle sue lezioni, in particolare in una classe tenuta a Pune ha citato anche il Samyama, e quindi nel seminario questa è stata l’ispirazione per la sequenza.

Per prima cosa occorre imparare a praticare gli asana e capire che cosa significa praticare gli asana. Non dovete pensare che chi è flessibile può fare la posizione e chi non lo è non la farà mai. Questo significa avere paura del cambiamento; ma senza cambiamento non c’è evoluzione e soprattutto non c’è samyama.  Gli asana sono preliminari perché insegnano a cambiare, a modellare il proprio corpo, a renderlo silenzioso. Soprattutto insegnano un processo di apprendimento.   Il corpo e la mente sono tamasici per natura. Per superare questo, occorre tenere la mente vicino al corpo, non a vagare per conto suo.  Se il corpo non risponde, vuol dire che la mente non è vicino al corpo, oppure sente che sta avvenendo qualcosa di sconosciuto e prova paura. Nirodah per la mente è qualcosa di sconosciuto, per questo è tanto difficile.

samyama1Supta swastikasana. Incrociare le gambe in swastikasana, portare i piedi più vicino al bacino per compattare i femori, estendere le braccia per estendere i due lati del torace. Scapole in dentro, lombari giù. Mettere le mani come in urdhva dhanurasana, sollevare il torace come in paryankasana e appoggiare la cima della testa a terra. Se non è possibile, sollevare le ginocchia, mettere le mani sotto le cosce e puntando i gomiti, fare l’azione di paryankasana.

Badda konasana, spingere le piante dei piedi ed estendere la schiena a terra in supta badda konasana. spingere l’osso sacro a terra, rilassante gli inguini, estendere le braccia oltre la testa. Ora afferrare con le mani le caviglie (palmi verso l’alto) e spingere di più l’osso sacro all’interno, e gli inguini verso il basso.  ora portare le mani sotto le cosce, sollevare il torace come nella posizione precedente, mettere le mani in urdhva dhanurasana e portare di più la cima della testa verso il bacino.

Virasana. Portare le mani sulla pianta dei piedi  e andare in paryankasana. Non estendere le braccia per ora. Sollevare le scapole, spingere il dorso dei piedi, le tibie, gli ischi, la cima della testa, i gomiti. Poi andare in supta virasana ed estendere le braccia.

Una gamba in padmasana, l’altra in swastikasana (ardha padmasana). Il piede in swastikasana va sotto la coscia opposta. Paryankasana, spingere le cosce al pavimento, gli ischi giù, poi estendere i due lati del tronco, braccia estese oltre la testa. Altro lato.

Padmasana, matsyasana. Afferrare con le mani i metatarsi per portare la cima della testa più vicina al bacino. inguini giù, cosce giù. Poi estendere la schiena a terra. Altro lato.

dandasana. Spingere i gomiti a terra  e portare la cima della testa a terra. Afferrare i due lati del tappetino per sollevare di più le scapole.

uttanasana

sirsasana. Badda konasana in sirsasana.

samyama2parivrtta janu sirsasana. Un gomito lontano dalla gamba distesa, l’altra mano alla vita. Spingere il gomito e ruotare portando in dentro e in su la scapola. Il torace fa matsyasana. Tenere il lato interno del piede per fare leva con il gomito e aiutare la torsione.  Dovete capire perché il gomito non va giù. Non ruotate la testa prima di aver portato il gomito giù ed aver eseguito la torsione.  Una seconda volta. Ora il torace deve scendere, ma si deve ruotare verso il soffitto, le spalle allineate. Estendere il braccio verso il piede della gamba tesa, mano in su, poi piegare il gomito. Aiutare con l’altra mano a portare il gomito più in avanti.  Portare un lato del tronco verso il basso, l’altro verso l’alto. Occorre fare lo sforzo, aiutarsi con l’altra mano, se il gomito non scende.  Ma prima dovete fare l’estensione di quel lato, se contraete, il gomito non potrà mai scendere.  Se non siete capaci, potete iniziare con delle torsioni più semplici, oppure praticare con il muro. La gamba distesa vicino al muro, la schiena al muro, ora potete estendere il torace e immaginare che ci sia una televisione al soffitto, guardate là!

Parivrtta janu sirsasana. Una gamba piegata, l’altra tesa, torace rivolto in avanti. Ruotare la gamba tesa completamente, mettere la mano sotto la coscia per ruotarla. Estendere il lato della gamba, piegare il gomito ed estendere la mano oltre al piede per ruotare l’addome e il torace. Le scapole fanno paryankasana. L’altra mano in vita. Ora estendete il braccio opposto in linea come in parsvakonasana.  Infine afferrate il lato esterno del piede, piegate tutti e due i gomiti e ruotare.

Sayama3Utthita parsvakonasana=parivrtta janu sirsasana. Ruotare una coscia completamente, scapole giù, lati del torace su. Piegare ad angolo retto la gamba, radice della coscia giù, ginocchio indietro. La natica in avanti, come in parivrtta janu sirsasana.  Portare la mano giù, l’altra in vita. Se l’inguine non lavora piegare il gomito e spingere il ginocchio indietro e la natica in avanti, come nella posizione precedente. Ruotare le costole e portare il braccio opposto su.

Uttanasana

parivritta janu sirsasana. Preparazione. Connessioni con utthita parsvakonasana.  Piegare una gamba e ruotare. Osservare la gamba tesa, come si mantiene la rotazione della gamba? Dovete resistere con la natica in avanti. Come in utthita parsvakonasana, il piede e l’ischio della gamba davanti devono essere allineati

utthita parsvakonasana. Ruotare la coscia indietro, come in parivrtta janu sirsasana.  Ora la mano dietro e estendere il braccio opposto

parivrtta janu sirsasana.  Osservare l’allineamento. Il punto più difficile da muovere è la mente, muovere dalle abitudini, dallo stato tamasico.  Le prime volte il corpo può essere indolenzito, per questo la mente si rifiuta. E’ come partire da samashtiti: la gamba ruota di 90° la caviglia e l’ischio sono allineati, i due lati del torace sono allineati. Quando si allunga il torace verso la gamba tesa, addome e costole ruotano nella direzione opposta. Il bacino è il fulcro. La gamba dietro resiste e resta ruotata, non si muove in dentro. Ora si aggiungono le braccia e mantenendo le natiche in dentro si ruota di più.

upavishta konasana. Natiche in dentro, come parivrtta janu sirsasana. Integrazione: Dharana, Dhyana, Samadhi. Le azioni imparate in parivrtta janu sisrsasana devono essere integrate in utthita parsvakonasana. Questo è Samyama. Quanta attenzione è necessaria per questa integrazione? Ci vogliono anni di pratica per fare upavishta konasana, come samashtiti.  Andiamo dalla frammentazione all’integrazione. Eppure la mente scappa dall’integrazione, preferisce la frammentazione.

ardha chandrasana. Integrare tutte le azioni: utthita parsvakonasana, paryankasana, parivrtta janu sirsasana. E ogni asana va osservata in questo modo, ogni azione va integrata in questo modo. E’ un linguaggio che va perfezionato negli anni.  E’ un solo fluire di attenzione, come in Dhyana. Controllare voi stessi dal corpo, questo è il messaggio di Guruji.  Occorre partire dagli asana, dal corpo, finché non c’è integrazione nelle azioni del corpo, non c’è Samyama.

setubandha mattone

III.1 deśa-bandhaś cittasya-dhāraṇā

la concentrazione è fissare la mente in un luogo

III.2 tatra pratyayaika-tānatā dhyānam

la meditazione è fissare la mente su una sola immagine

III.3 tad evārtha-mātra-nirbhāsam svarūpa-śūnyam iva samādhiḥ

Avviene il samadhi quando la stessa meditazione riluce e la mente è priva della sua propria natura

III.4 trayam ekatra saṁyamaḥ

La pratica di questi tre si dice samyama

(Questa lezione di Geetaji è stata tenuta a Pune nel giugno 2009)

 

Asana/Dhyana

 

Nei seminari di quest’anno dedicati agli studenti intermedi ed avanzati andremo a rileggere che cosa Patanjali ha detto a proposito dell’astanga yoga e a mettere in relazione con gli asana ogni volta un “anga” diverso. Questo perché Guruji ha insegnato principalmente la perfezione dell’asana, convinto che nella pratica degli asana siano impliciti anche gli altri “rami” o “anga” dello yoga.

Questo seminario (23 settembre 2017) prosegue la serie già iniziata la scorsa primavera, in cui sono state proposte sequenze ispirate da alcune “parole chiave” degli Yoga Sutra: la stabilità, il distacco, l’ardore, il coraggio, la conoscenza.

Iniziamo quindi con asana/dhyana perché secondo alcuni commentatori l’asana è solamente la posizione seduta  ed infatti la parola è utilizzata nei Veda con il significato di “sedile”. Questo ha provocato dibattiti tra gli studiosi, poiché sembra che ci sia poco in comune tra gli  “asana” praticati oggi nelle numerose scuole di yoga e l’asana inteso come stasi, posizione seduta per la pratica di dhyana, meditazione o contemplazione.

Il geniale lavoro di ricerca e di insegnamento di BKS Iyengar ci dimostra che non è così. Anche gli asana di tradizione più antica richiedono un non indifferente lavoro fisico di preparazione e una attenzione al corpo inconciliabile con i luoghi comuni sullo yoga “meditativo”.

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Alcuni documenti archeologici aiutano a comprendere che la pratica del terzo “anga” di Patanjali sia qualcosa di più e di diverso dal semplice stare seduti per la meditazione. Basta osservare una delle numerose statue di Buddha del Gandhara (II secolo a.C.) per ammirare la perfetta simmetria del padmasana, l’estensione verso l’alto dei due lati del torace, il rilassamento della gola, il rilassamento della pelle del viso. Soltanto le mani descrivono un mudra e sono in posizione asimmetrica perché il gesto esprime il significato della raffigurazione.

WP_20170919_13_49_55_ProUn bronzetto proveniente dal sud dell’India, forse ben 1500 anni dopo, ovvero verso il 1300, raffigura Yoga-Narashima ovvero Visnu nella sua incarnazione come uomo con la testa di leone. La divinità è questa volta seduta in sukhasana, la posizione comoda. L’incrocio delle gambe è sorretto da una larga fettuccia, come le nostre cinture! Ancora una volta non soltanto vediamo la perfetta esecuzione dell’asana ma anche l’uso di un supporto.  Questa statua è stata citata infatti da Guruji a proposito della antica sapienza dello studio degli asana e dei modi -inclusi i supporti- per renderle più semplici da imparare e da “sentire”.

Patanjali dedica agli asana 3 sutra:

II, 46  l’asana è perfetta stabilità del corpo, perseveranza dell’intelligenza e buona disposizione dello spirito (Iyengar)

La positura (dovrebbe essere) stabile e comoda (Taimni)

(dopo aver atteso alle astensioni e prescrizioni) si dà una stasi stabile e agevole (Squarcini)

II, 47 la perfezione nell’asana è raggiunta quando lo sforzo per eseguirla diventa senza sforzo e l’essere infinito dentro di noi viene raggiunto (Iyengar)

mediante il rilassamento dello sforzo e la meditazione sul “senza fine” (si domina una postura) (Taimni)

(Una stasi a cui si è giunti in virtù) dell’allentamento dello sforzo e dell’approdo alla concordanza con l’illimitatezza (Squarcini)

II, 48 da questo punto in poi il sadhaka non è più disturbato dalla dualità (Iyengar)

da ciò la mancanza di attacchi da parte delle coppie di opposti (Taimni)

e dalla quale deriva l’immunità alle coppie di opposti (Squarcini)

Tre sutra possono parere pochi, in confronto alo spazio dedicato, ad esempio, a descrivere i vari yama e nyama. Questo è stato un argomento usato dai sostenitori dello yoga “meditativo” per dire che gli asana sono un aspetto secondario della pratica. Ma in realtà dhyana, che noi traduciamo  con “meditazione” è definito con un solo sutra:

III, 2 La meditazione è un flusso regolare di attenzione diretto verso un unico punto o area (Iyengar)

il flusso ininterrotto della mente verso l’oggetto (scelto per la meditazione) è la contemplazione (Taimni)

L’univoco protrarsi in questa (stessa) sede della disposizione alla cognizione (rimasta) è la visione inintenzionata (Squarcini)

Il fatto che Patanjali dedichi poco spazio agli asana non vuole dire che questo “anga” non sia importante. Secondo alcuni, non descrive gli asana più in dettaglio perché altri testi l’avevano già fatto: un testo più tardo, l’Hathayoga Pradipika, si propone proprio di illustrare la pratica di asana, pranayama, mudra e bandha secondo gli insegnamenti dei più antichi e autorevoli maestri, distinguendo tra raja yoga, i principi dello yoga e hatha yoga, la pratica dello yoga (questo testo si data forse al XIV secolo). E tra gli antichi maestri ci sono anche i commentatori di Patanjali, tra cui Vyasa che, qualche secolo dopo Patanjali, nomina 11 asana principali, che non sono però gli  unici. Questi asana sono tutte posizioni sedute o varianti di posizioni sedute, ma nell’Hathayoga Pradipika si parla di 84 posizioni descritte da Siva e di un numero pressoché infinito di posizioni nei testi più tardi.

In conclusione, pare ragionevole l’interpretazione di Edwin Bryant che per “asana” suppone si debba intendere tutta quella pratica volta ad abituare il corpo in modo tale che la mente non venga disturbata durante la meditazione, un rapporto privilegiato quindi tra asana e dhyana. Certo, in sé, la pratica degli asana non è l’obbiettivo dello yoga, ma la stessa cosa si potrebbe dire anche degli altri “anga” descritti negli Yoga Sutra. E’ lo stretto legame tra tutti questi aspetti che rende la pratica efficace a raggiungere gli obbiettivi.

Quindi con la nostra pratica, in questa fase, studiamo le posizioni sedute descritte da Vyasa ed eseguiamo una sequenza volta a migliorare la stabilità era comodità di queste posizioni, alla ricerca dello “sforzo senza sforzo” e del “superamento della dualità” in modo tale che non intervenga alcun disturbo da parte del corpo durante il pranayama seduto e la contemplazione o meditazione (in grassetto gli asana menzionati da Vyasa):

tadasana/uktanasana/malasana/adho mukha svanasana/uttanasana

supta tadasana/pavana muktasana/urdhva prasarita padasana/supta padangustasana

virabhadrasana II x 3

dandasana/sukhasana/parvatasana in sukhasana/supta sukhasana

siddhasana/preparazione per kamalasana/ardha kamalasana/kamalasana/

ardha padmasana/padmasana/parvatasana in padmasana/matsyasana

virasana/parvatasana in virasana/ supta virasana/paryankasana/yoga mudra in virasana/Krounchasana/ustrasana

badda konasana/yoga mudra in badda konasana/supta badda konasana

savasana

ujjyai pranayama sdraiato con gambe incrociate su bolster

villoma pranayama espirazione in sukhasana o padmasana mantenendo l’addome rilassato, il torace su

dhyana in sukhasana, padmasana o virasana

 

Bibliografia consultata:

B.K.S. Iyengar, Gli antichi insegnamenti dello Yoga. I Sutra del grande maestro Patanjali, 1997

Taimni I. K. La scienza dello Yoga. Commento agli yogasutra di Patanjali, 1970

Patanjali. Yogasutra, a cura di Federico Squarcini, 2015

E.F. Bryant, The Yoga Sutras of Patanjali. A New Edition, Translation and Commentary, 2015

 

 

 

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