L’insegnamento di Swati Chanchani

Ho frequentato il bellissimo seminario di Swati Chanchani organizzato dallo Studio Yoga di Faenza ed è stata una esperienza entusiasmante. Forse soltanto ora, a più di trent’anni dal mio primo viaggio in India e venti di pratica di Iyengar Yoga, riesco a comprendere di aver soltanto scalfito la superficie della straordinaria sapienza indiana.  Swati Chanchani è una vera “Maestra”, abile e affabile, sempre sorridente e tuttavia misteriosa come la profonda sapienza che porta in sè.  Ma voglio ugualmente  provare a comunicare alcune sue espressioni che ho trovato particolarmente dense di significato.

fb_img_1558820437575.jpgOltre all’invocazione a Patanjali, all’inizio si è cantata l’invocazione a Ganesh. L’elefante, con il suo topolino Akhu,  procedono sempre su una via diritta: per questo proteggono il cammino spirituale, rimuovendo gli ostacoli. L’invocazione si recita vicino all’insegnante. Infatti i testi più antichi che parlano di pratica yoga sono le Upanishad e questa parola letteralmente significa: “sedete qui vicino”, riferito allo studente che riceve insegnamento spirituale dal maestro. E’ ovvio che  gli studenti devono ascoltare e rimanere attenti: quindi non sono consentiti appunti, e meno ancora fotografie e registrazioni.

Per l’India, Yoga e Karma sono inseparabili e tutti sanno di che cosa si parla. Il percorso dello Yoga serve per ottenere la liberazione dalla legge del karma. In Occidente invece tante persone oggi vogliono fare “un po’” di yoga per migliorare il loro stato di salute. Questo non è sbagliato perché può essere l’inizio di un cammino, ma occorre ricordare che l’obbiettivo dello yoga è superare il mondo terreno soggetto alla causa ed effetto. La legge di causa ed effetto fa sì che ognuno di noi abbia innumerevoli vite, e tutto ciò che si fa, anche l’atto apparentemente meno significativo, prima o poi avrà una conseguenza.

Il saggio Patanjali non ha inventato lo yoga, ma lo ha riassunto in 196 sutra, in modo che questo sapere concentrato potesse essere imparato a memoria. Il primo capitolo (pada) è dedicato a chi è già oltre i problemi della mente; il secondo è per gli studenti principianti; il terzo per gli studenti avanzati e sulla gestione dei poteri che conferisce lo yoga; il quarto su come deve condurre la vita di ogni giorno chi ha realizzato con l’obbiettivo dello yoga. Per ogni livello di studio Patanjali dice quali sono le difficoltà e come possono essere superate. Per i principianti gli ostacoli sono: pigrizia, malattia e dubbio.

La pratica degli asana serve per imparare e consolidare le posizioni della meditazione, soprattutto virasana, badda konasana, padmasana, swastikasana, siddhasana: in tutte queste posizioni, il perineo è al pavimento, quindi la colonna si allunga in modo naturale. L’osso sacro  si muove verso il basso e l’ombelico verso l’alto. Quando si ascolta il maestro o si studia in queste posizioni, l’apprendimento è facile perchè la colonna è allungata e la mente è vigile. Esistono, secondo la tradizione, 860000 asana, ma tutte servono a questo scopo.

Le posizioni come adho mukha virasana, adho mukha svanasana, parsvottananasana, uttanasana, prasarita padottananasana hanno tutte la funzione, tra l’altro, di allungare i muscoli della parte posteriore della coscia (harmstrings) in particolare il bicipite femorale, il lungo muscolo che va dall’ischio al ginocchio. Questa parte va resa flessibile e sensibile perché è importantissima per l’allungamento della colonna.

Il pranayama è lo stadio successivo dopo gli asana, ma si deve praticare anche contemporaneamente. Ogni posizione fa sì che il respiro sia differente. Ad esempio nelle torsioni, parivrtta trikonasana, occorre portare il respiro nel lato del torace opposto alla torsione. In tutte le posizioni, occorre riempire l’esecuzione della posizione con il respiro. La respirazione “viloma”, interrotta da pause,  è ideale per andare in posizione (ad esempio trikonasana) in modo corretto, equilibrando respirazione e attenzione. Per eseguire altre posizioni, ad esempio certe torsioni intense come marichasana 3 o parivritta parsvakonasana, è opportuno eseguire brevi espirazioni, come nella tecnica “bastrika”.

IMG-20190616-WA0003Swati Chanchani ha anche tenuto una bellissima conferenza, proiettando immagini, sul tema dello yoga e dell’arte. BKS Iyengar era solito dire: “Lo Yoga è come la musica. Il ritmo del corpo, la melodia della mente e l’armonia dell’anima creano la sinfonia della vita” e infatti il primo famoso allievo occidentale fu il famoso violinista Yehudi Menuhin. Ma Guruji era solito ricordare anche la simmetria del corpo, la simmetria degli asana, l’arte di rendere armonico il corpo. Le ricerche di Swati sulla storia dello yoga e lo yoga nell’arte, con il figlio, prof. Nachiket Chanchani (University of Michigan, Ann Arbor, USA) sicuramente porteranno ancora nuovi aspetti interessanti su una disciplina che coinvolge sempre più persone in ogni paese.

Grazie ancora allo Studio Yoga di Faenza e a Ilaria Zinzani per la bellissima iniziativa.

 

 

Meditazione: iniziare il prima possibile e continuare….

Vacanze o meno, a volte la tensione della vita è tale da non riuscire a fermare la testa. Sembra che in ogni istante si debba risolvere un qualche problema, che in ogni istante ci siano cose da ricordare. Meditazione è semplicemente concedersi il lusso di non pensare a nulla.

Perché in primavera o estate? Gli impegni sono minori, il clima è più rilassato, anche se le lunghe ore di luce ricordano che ci sarebbe molto da fare. Infatti l’estate passa velocemente e magari si nota di non aver poi fatto nulla di speciale. Per questo l’estate è perfetta per la meditazione ed è il momento ideale per iniziare se ancora non si è stabilita questa abitudine. Non c’è pratica più “speciale” della meditazione.

Dhyana, secondo la filosofia yoga,  è l’attività volta a espandere in modo uniforme l’intelligenza; il primo passo (dopo dharana, concentrazione) è il fermo fluire dell’attenzione verso la stessa area, o punto.

YogaSutra, III.2 tatra pratyayaika-tānatā dhyānam

Ekatānatā è la parola chiave di dhyana, secondo BKS Iyengar. Il flusso di attenzione deve essere fermo e ininterrotto, ma al tempo stesso uniforme. Non c’è pigrizia, non c’è noia. Non è semplice concentrazione, ma “attenzione all’anima, dall’anima, per l’anima”. L’anima, atman, è diversa da quello che intendiamo nelle religioni occidentali. Atman è pura consapevolezza, al di fuori delle modificazioni della realtà materiale. Anche l’intelligenza e l’attenzione fanno parte della realtà materiale, ma sono quanto di più vicino abbiamo alla pura consapevolezza. In dharana e dhyana occorre rimanere concentrati sull’interno di sé, e interrompere gli altri flussi di pensieri disturbanti, o almeno, all’inizio, saperli riconoscere e prendere distanza.

 

YogaSutra, IV, 6 tatra dhyānajam anasayam

La mente di chi pratica yoga deve essere portata alla calma originaria e al silenzio. Questo pone fine ai condizionamenti mentali e libera dal coinvolgimento degli oggetti. Numerosissimi studi scientifici hanno dimostrato l’efficacia della meditazione per ridurre il cd. stress, migliorare la qualità del sonno, ma soprattutto migliorare la qualità della vita! Perché chi si abitua a meditare, dopo breve tempo, “prende la distanze” da ciò che succede e diventa meno incline al nervosismo: in altri termini, si avvicina all’obbiettivo dello yoga.

cadf0f7d2cd7e183d4d85a9ba5866607--patanjali-yoga-mindfulnessQuesti effetti, addirittura, sono misurabili in breve tempo, come ha dimostrato, ad esempio, uno studio recente, dove sono stati confrontati i risultati tra persone che avevano meditato durante un workshop di una settimana rispetto a persone che non avevano svolto questa attività. I cambiamenti sono, in così poco tempo, molto significativi, perché con la meditazione si attuano modificazioni  profonde nella struttura mentale.

Un altro studio ha avuto come protagonisti ragazzi della scuola superiore e i loro insegnanti, nell’ambito di una attività promossa dalla Fondazione David Lynch, pubblicata sul supplemento di Repubblica. Un gruppo di 80 persone volontarie ha meditato per tre mesi, due volte al giorno, per 15-20 minuti; i risultati sono stati confrontati, con esiti stupefacenti, con quelli di persone che che non avevano svolto alcuna attività. Insomma, pare che Patanjali avesse assolutamente ragione: praticare samyama (dharana, dhyana, samadhi) consente di liberarsi dalle contingenze della vita, acquistare serenità e capacità di giudizio; in altri termini, superare l’ignoranza che viene dalla veduta particolare e soggettiva delle cose.

Geeta Iyengar ricorda che lo strumento della meditazione è il corpo, che deve essere precedentemente fortificato con la pratica regolare di asana e pranayama.  La meditazione non si insegna, si pratica: su questo anche Guruji era tassativo. Non si pratica in gruppo e quindi non si può insegnare nelle classi, si deve praticare individualmente. Il consiglio è iniziare con 10 minuti, al mattino presto, prima del pranayama; successivamente si potrà aumentare il tempo. Personalmente ritengo sia molto utile anche una meditazione a fine giornata, della stessa durata della mattina. In “Yoga per la donna”, Geetaji insegna in modo molto preciso quale deve essere la posizione e l’atteggiamento mentale nel corso della meditazione. Sono pagine di saggezza. Chi non desidera per ora iniziare la meditazione, dovrebbe comunque leggerle e lasciare sedimentare l’impressione di questo insegnamento, da cui traspare una conoscenza di immensa profondità.

 

 

Bibliografia consultata:

BKS Iyengar, Gli antichi insegnamenti dello Yoga, I sutra del grande maestro Patanjali, Ed. Italiana Futura, 1977.

BKS Iyengar, Light On Astanga Yoga, 2° Ed., Mumbai, 2012

Geeta Iyengar, Yoga per la donna. Roma, 1992.

 

Attualità dello Yoga (Dal Festival dell’Oriente)

Perché milioni di persone fanno yoga? Che cosa spinge, in tutto il mondo, così tanta gente verso una disciplina antica e nata in un contesto tanto diverso, geograficamente e storicamente? Le persone che oggi “praticano yoga” hanno consapevolezza di continuare una tradizione millenaria, o seguono semplicemente una moda nell’ambito del fittness, come prima è stata la danza moderna o l’aereobica?

Cercando di raccogliere le idee per la mia conferenza nell’ambito del Festival dell’Oriente di Torino 2019, mi chiedevo se questa curiosità fosse solo mia personale o potesse interessare il pubblico. Io sono stata archeologa prima che insegnante di yoga e ho passione per la storia, anche se purtroppo non conosco il sanscrito e non posso così accedere alle fonti dello yoga “di prima mano”. Alcune persone che praticano yoga dicono di non avere tempo di studiare filosofia, rendendosi conto della difficoltà del tema e della distanza che separa la nostra cultura da quella dei testi yoga: lo yoga, d’altro canto, va praticato e non soltanto studiato sui libri e questo atteggiamento quindi è ben comprensibile e fondamentalmente corretto. Invece gli studiosi (occidentali) di storia delle religioni o di filosofia indiana spesso fanno notare con un po’ di sufficienza che la pratica di asana e un po’ di pranayama, come si usa oggi, è qualcosa di diverso dalla pratica degli yogi di duemila anni fa. Io penso che le due posizioni abbiano entrambe qualche ragione, ma se lo yoga è così popolare oggi occorre cercare i punti di incontro tra la filosofia e la pratica.

Quando si ascoltano lezioni di insegnanti e maestri indiani sembra tutto facile; per loro la sapienza non può essere altro che “olistica”. E’ evidente che corpo, mente e spirito devono essere conosciuti e trasformati con la pratica yoga, questo è l’unico vero obbiettivo. Ma quando si torna “a casa”e si lascia l’India alle spalle, l’impatto può essere disturbante e la realtà degli studenti e insegnanti yoga pare ben diversa. Soltanto l’individualismo, la razionalità e la “scientificità” sembrano trovare posto nella nostra cultura, il resto può essere anche benefico (nessuno nega che lo yoga faccia bene alla salute!) ma la serietà del sapere è considerata altra cosa e questo sapere richiede profonde specializzazioni. Ci si trova in un mondo “dualistico” in cui ogni cosa deve essere esaminata “oggettivamente” “scientificamente” e “razionalmente”. Secondo lo yoga invece, come afferma Prashant Iyengar, occorre osservare oggettivamente noi stessi, non soltanto il corpo, ma i pensieri e le sensazioni.

Mi trovavo appunto a riflettere su questi temi quando ho trovato un articolo di Zubin Zarthoshtimanesh, un fantastico insegnante della scuola di BKS Iyengar. Ho avuto il privilegio di seguire le sue lezioni a Mumbai e in Italia e Zubin sa mettere insieme la maturità della riflessione con un insegnamento preciso e coinvolgente. “Oggi la tecnologia ha reso molte cose più facili, ma per accedere alla complessità del nostro vero essere, la scienza e l’arte dello Yoga sono ancora insuperate” dice Zubin. Se vogliamo usare un linguaggio attuale possiamo pensare alle pratiche yoga come alle “app” che ci permettono di accedere a nostre funzioni dell’interiorità sconosciute o quasi. Il nostro mondo interno è troppo complicato; in occidente si preferisce ignorarlo e rivolgersi all’esterno dove tutto pare molto più interessante, accessibile e coinvolgente.

Con le asana possiamo imparare il funzionamento del nostro corpo, non soltanto dal punto di vista fisico ma anche mentale. “Capisco bene i limiti del corpo” era solita dire Geetaji Iyengar nelle sue lezioni, “ma i veri limiti sono nella mente”. Lo yoga insegna infatti al praticante come comprendere le connessioni tra la mente, il corpo e il respiro. Lo stato mentale yogico è sereno, chiaro, passivo e queste qualità migliorano mano a mano che si continua la pratica in una sequenza di asana, e giorno dopo giorno.

Se si esegue una qualsiasi attività sportiva, ragiona Zubin, si usano determinate parti del corpo per ottenere le performances volute. Se si praticano gli asana, si vanno a conoscere le parti del corpo e si impara come la mente può agire su di esse. Se si studia anatomia o fisiologia, si impara a conoscere il corpo fisico, ma non il suo collegamento con la mente, con i sensi, con il respiro. Questo è il motivo per cui lo yoga è la disciplina più “olistica”.

Secondo gli Yoga Sutra di Patanjali, lo yoga è costituito da otto “stadi” o “rami” che di solito sono intesi come tappe di un percorso; ma la ricerca approfondita di sè non è un percorso lineare, prosegue Zubin. La maggior parte degli occidentali inizia con la pratica degli asana; in questo modo si impara a comprendere la stabilità del corpo, il suo funzionamento, la pazienza e la dedizione richiesta da una sua più approfondita conoscenza Si inizia dal corpo fisico, la parte più accessibile, il sistema scheletrico e muscolare. Non è necessario studiare tanto la filosofia per comprendere questi obbiettivi e quindi questo percorso interessa oggi moltissime persone. Sta poi alla volontà individuale proseguire . L’antico Patanjali è quindi incredibilmente moderno perché riconosce in modo chiarissimo che sta al singolo essere umano usare la pratica e la “rinuncia” (ad altri impegni mondani alternativi) per proseguire sulla strada della conoscenza yogica. Alla fine, paradossalmente, non c’è niente di esoterico nella ricerca delle profondità del sè.

BKS Iyengar diceva che la filosofia Patanjali è un argomento pratico, non teorico. Come tutta la materia è una forza dinamica, anche lo yoga è una forza dinamica, vivente. Le sue trasformazioni attraverso il tempo, dall’India dei primi secoli della nostra era fino ad oggi, sono avvenute in modo coerente, senza perdere la specificità e l’originalità del messaggio. Il suo attuale, enorme successo va visto solo in modo positivo e sta a noi utilizzare al meglio questa grande risorsa.

Tra Iyengar Yoga e Hatha Yoga: “Hathapradipika”

Hathapradipika è un importantissimo testo yoga è datato tra la metà del XIV secolo e la metà del XVI. Nel corso dei secoli le nuove corrispondenze tra posture e riflessi psicofisici che si andavano scoprendo accrescevano il patrimonio del classico yoga di Patanjali. Di questo testo esistono più versioni manoscritte;  come anche per Patanjali ed i suoi Yoga Sutra, è impossibile definire cosa sia prodotto originale dell’autore e cosa sia stato riportato da altri scritti o istruzioni tramandate oralmente che non ci sono pervenute. Mentre lo yoga di Patanjali prende ispirazione solamente dai Veda, quale testo ortodosso induista, l’autore dell’Hathapradipika,  secoli dopo, ha una cultura più pratica ed eterogenea.

Rispetto agli YogaSutra, ci sono almeno mille anni di differenza, ed in effetti i due testi sono ben diversi. Mentre Patanjali spiega che cosa è lo yoga, e cosa occorre fare per ottenere la cessazione delle fluttuazioni della mente, ovvero il samadhi, l’ Hathapradipika spiega le tecniche dell’Hatha Yoga, ovvero vuole essere una “lampada” che illumina il cammino del praticante verso il raja yoga,  lo yoga di Patanjali, così come è stato definito uno  dei sei “darsana”, cioè una delle sei filosofie o “punti di vista” intorno a cui si organizza il pensiero induista. Secondo l’autore Swatmarama, l’insieme di queste tecniche è indispensabile per ottenere gli obbiettivi del raja yoga: si definisce così -per la prima volta forse- una gerarchia tra tipi di yoga, adatti alla preparazione e al livello del praticante.

kundalini-chakrasL’Hatha Yoga serve a risvegliare il corpo sottile  (linga sarira) superando i limiti del corpo grossolano (sthula sarira). Infatti il soffio vitale (prana) circola nel complesso sistema delle nadi del corpo, che hanno origine in un particolare organo o kanda (bulbo) collocato tra gli organi genitali e l’ombelico. Questo punto del corpo è attraversato dalla nadi più importante di tutte, la susumma, che parte dal primo chakra e si innalza fino alla sommità del capo, oltre il quale si trova il “loto a mille petali” che raggiunge Parama Siva, o Brahman. Pertanto tutta la tradizione dei chakra e della risalita dell’energia chiamata Kundalini trova proprio nell’Hathapradipika la sua fonte più autorevole. Le tecniche per risvegliare questa energia sono asana, pranayama ecc. con una enfasi maggiore sugli aspetti pratici della disciplina, cioè una serie di esercizi psicofisici, coerentemente con il contesto culturale in cui il testo si è formato,  quello della scuola c.d. dei Nath, che ha come referente il dio Siva.

Secondo Patanjali, fermare le fluttuazioni della mente è l’ obbiettivo dello yoga. Per l’Hathapradipika, obbiettivo dello yoga è l’ascesa del prana, simboleggiato da Kundalini, fino all’assoluto: hatha significa infatti, “forza”, “sforzo” e tutto il testo fa continua allusione alle contrazioni, sforzi necessari a questo scopo.

Così come è estremamente interessante studiare le fonti ed il contesto culturale in cui nasce il testo di Patanjali (Federico Squarcini ha approfondito in particolare questo aspetto nella sua introduzione a Patanjali, Yogasutra, Torino, Einaudi, 2015), così è fondamentale capire come, secoli dopo, si sia evoluta la pratica dello yoga e quali siano i nuovi elementi culturali, religiosi, devozionali che sono andati a integrare la preparazione dei maestri di yoga, ma anche le differenze che si andavano delineando tra scuole diverse.

Il ricongiungimento con l’assoluto secondo l’ Hathapradipika fa riferimento al dio  Siva, mentre Patanjali e i suoi commentatori si richiamano a Visnu-Krsna della Bhagavad Gita. Se vogliamo “orientarci” nelle complicatissime tradizioni indiane, occorre osservare che la scuola dell’Hathapradipika è monistica (ovvero ritiene che esista una sola sostanza, la consapevolezza, secondo gli insegnamenti di Sankara), mentre quella di Patanjali è dualistica (purusa e prakrti sono distinte; dopo Patanjali, il teorico del sistema è Ramanuja).

Queste differenze tendono a essere diluite nelle esportazioni dello yoga in occidente, anche perché gli occidentali sono spesso più interessati ai benefici fisici dello yoga che alla disciplina come percorso spirituale; ma anche le stesse scuole indiane di yoga hanno spesso mescolato i testi, prendendo da Patanjali l’autorevolezza come “sacro testo”, e dall’   Hathapradipika il fascino del risveglio di Kundalini.

Anche Guruji e Prashant Iyengar riconoscono l’importanza di questo testo e lo citano spesso; però la loro tradizione familiare di bramini si richiama esplicitamente alla tradizione del dio Visnu e a Ramanuja. Tra l’altro, secondo la tradizione Ramanuja-Iyengar, tutti possono accedere agli insegnamenti sacri e di yoga, indipendentemente dalla casta (non è così secondo la tradizione di Sankara)

Un’altra differenza è sulla concezione di asana.  Gli Yoga Sutra citavano appena le asana (due soli sutra!) tra gli “anga” dello yoga, mentre l’Hathapradipika elenca un certo numero di asana, oltre che tecniche di pranayama, bandha, mudra ecc. La maggior parte degli studiosi di formazione più accademica e filologica (come Squarcini, ma anche come Edwin Bryant) ritiene che la tecnica degli asana si sia sviluppata più tardi rispetto agli Yoga Sutra e che costituisca, in un certo senso, un imbarbarimento (che continua oggi!!!).

Altri hanno invece sottolineato la “astoricità” tipica della cultura indiana di mantenere le tradizioni per millenni, se mai “aggiungendo” ma non mai modificando totalmente, per cui l’India si presenta allo studioso come uno straordinario monumento archeologico, in cui sono contemporaneamente presenti e vive fasi remotissime del pensiero religioso (Filippani Ronconi). Il fatto che per la prima volta gli asana appaiano nei testi pervenuti sino a noi,  non significa che non venissero praticati ai tempi di Patanjali; anzi, magari erano così diffusi che non valeva la pena di parlarne in un testo filosofico. Oppure potevano essere diffusi soltanto tra gli asceti, mentre un testo come l’Hathapradipika, si dice esplicitamente, vuole portare a tutti questa conoscenza (J. Mallinson, A Response to Mark Singleton’s Yoga Body, 2011).

Sappiamo dalla tradizione di Krishnamacharya e Iyengar che gli asana e il pranayama sono basilari nel percorso dello yoga: ma, secondo lo yoga di Patanjali, l’asana è “sforzo senza sforzo” ed occorre superare gli ostacoli al cammino dello yoga proprio con la pratica costante e il distacco.

1 (trascinato)La materia è ricchissima e si presterebbe ad infinite osservazioni.  Per inciso, si rifanno esplicitamente alla tradizione di Siva e all’Hathapradipika, i praticanti di Hatha Yoga della scuola Satyananda, molto diffusa anche in Italia. La versione italiana  dell’Hathapradipika da me consultata comprende 4 “lezioni” per complessivi 409 sutra, o versetti.

Nella prima “lezione”, l’autore, di nome Svatmarama, rende omaggio ai suoi maestri e fornisce una lunga lista di nomi, molti sconosciuti, tranne alcuni personaggi leggendari.

Swatmarama presenta l’Hatha Yoga come contrapposto al Raja Yoga: si tratta di due aspetti della stessa disciplina, dove l’Hatha (unione di Sole e Luna) rappresenta le pratiche fisiche e Raja (attività, movimento) gli aspetti mentali e spirituali.

Vengono spiegate alcune posizioni: Svastikasana, Gomukhasana, Virasana, Kurmasana, Padmasana, Kukkutasana, Uttanakurmasana, Padangustasana, Dhanurasana, Matsyandrasana, Paschimottanasana, Mayurasana, Savasana.

Tra le 84 asana nominate da Siva, ce ne sono 4 particolarmente importanti: Siddhasana, Padmasana, Simhasana, Bhadrasana. Tra queste, vengono descritti in particolari i benefici portati da Siddhasana, che purifica tutte le nadi del corpo, al punto tale che, chi pratica Siddhasana in continuazione, non servono più le altre asana! Tutte queste posizioni sono adatte alla pratica del pranayama e permettono di far salire l’energia, raggiungendo la meta suprema.

Altre prescrizioni riguardano il cibo, il comportamento e la necessità di una pratica costante.

Nella seconda “lezione”, Swatmarama affronta il pranayama, da lui e dalle sue fonti considerato una pratica più avanzata rispetto a quella degli asana, tanto è vero che dice espressamente che il praticante deve aver prima ottenuto stabilità nelle posizioni e poi può praticare pranayama. Questo ha lo scopo di ripulire le nadi del corpo e quindi di controllare il soffio vitale. Swatmarama fornisce indicazioni pratiche su come, quando e quanto pranayama praticare.

Ma nel caso il praticante sia troppo pesante, deve prima praticare i sei atti purificatori, che non sono approvati da tutti i maestri.

Chi pratica pranayama, vince la paura della morte. Chi pratica i diversi tipi di Kumbhaka (trattenimento del respiro), ottiene poteri straordinari.

Swatmarama elenca anche i bandha utilizzati durante il pranayama. Quasi tutte queste tecniche (non quelle della purificazione!!) sono  meglio spiegate nel testo di B.K.S. Iyengar, Teoria e Pratica del Pranayama.

Nella terza “lezione”Swatmarama spiega la natura e il funzionamento di Kundalini, energia che viene risvegliata dalla pratica yoga. Per questo risveglio è essenziale la pratica dei mudra, letteralmente sigilli, azioni che regolano e controllano l’energia vitale. La morte e la vecchiaia appartengono alla mente: con il controllo di Kundalini tutte le paure vengono superate e il praticante raggiunge poteri soprannaturali. Questa sapienza deve essere tenuta celata. Vengono spiegati dettagliatamente mahamudra, mulabandha, jalandara bandha, uddiyana bandha (tutte meglio ancora trattate nelle pubblicazioni di Iyengar) e altre pratiche che ora non sono più utilizzate. Vale la pena di ricordare che tali pratiche riguardano la mobilità della lingua, che una volta veniva dagli yogi accresciuta con vere e proprie mutilazioni e il controllo dell’energia sessuale.

Nella quarta e ultima “lezione” si parla del samadhi, la condizione in cui la mente e l’anima coincidono. E’ indispensabile la guida di un grande maestro, per superare la dualità della mente. La condizione di samadhi si ottiene quando si riesce a controllare completamente il prana, l’energia vitale, in modo che questo penetri nella susumma, il punto sommitale del capo, attraversando tutte le nadi del corpo. Quando la mente è completamente ferma, si raggiunge la completa liberazione (moksa). Questo tipo di conoscenza non è presente nei Veda, perché non è accessibile a chiunque. La completa espansione dell’energia vitale avviene nel superamento delle polarità solare e lunare, riassorbendo la mente tra le sopracciglia, dove si trovano i due chakra di Ida e Pindala.

Il venerabile Adinatha, grande maestro di yoga, ha insegnato moltissimi modi per ottenere il samadhi, però il principale viene chiamato “ascolto del suono interiore”, tecniche di introspezione con le quali si disattivano gli organi di senso. Al raggiungimento dell’apice si sente il suono della vina, del flauto e si ottiene una felicità ininterrotta. Su questo suono interiore viene condotta la meditazione e si raggiunge la perfetta conoscenza

Edizioni italiane:

Swatmarama. Hathapradipika (la Chiara Lanterna dello HATHA YOGA), Edizioni Savitry, Torino

Svatmarama, La Lucerna dello Hatha-Yoga (Hathayoga-Pradipika), a cura di Giuseppe Spera, Torino, 2000.

testo sanscrito, traslitterazione e traduzione inglese:  Hatha Yoga Pradipika

Invocazione a Patanjali

“Rendo onore a Patanjali, il più nobile dei saggi, che ci ha donato lo yoga per la serenità della mente, la grammatica per la purezza della lingua e la medicina per la salute perfetta del corpo.  Mi inchino a Patanjali, la cui parte superiore del corpo ha forma umana, le cui braccia tengono una spada, un disco e una conchiglia, ed è incoronato dal cobra con mille teste. O incarnazione di Adisesa, il mio saluto va a te”

Yogena cittasya padena vacam Malam sarirasyaca vaidyakena Yopakarottam prvaram muninam Patanjalim pranjaliranato’smi

Abahu purusakaram Sankha cakrasi dharinam Sahasra sirasam svetam Pranamami Patanjalim

Hari Hey Om”

Cantare qualcosa che non si comprende fa uno strano effetto. A volte stimola la curiosità; ma può anche suscitare un po’ di irritazione. Quando poi si impara l’invocazione, la si ripete con piacere e con devozione. Tuttavia, il sanscrito non è la nostra lingua e pochi sanno davvero che cosa stanno cantando.

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Patanjali è una figura leggendaria, il compilatore degli Yoga Sutra, un testo breve e denso di 196 aforismi, forse risalente al II-IV secolo d.C. (la scrittura; ma il testo è probabilmente più antico).  Questo testo ha avuto molti commenti nell’antichità, poi è stato un po’ dimenticato durante il periodo coloniale; negli ultimi anni è ritornato molto popolare perché tanti occidentali studiano yoga, così si sono moltiplicati gli studi e le traduzioni.  La comunità di  studenti di yoga di BKS Iyengar ha assunto l’abitudine di cantare questo mantra prima della lezione. Il mantra risale forse all’XI secolo, quando uno studioso degli Yoga Sutra, Bhoja, cercò qualche informazione “storica” su Patanjali, riconnettendo alla stessa figura un grande trattato di grammatica della lingua sanscrita.

In sanscrito, Pata significa cadere o caduto, e anjali offerta. Secondo la leggenda, Patanjali è reincarnazione di Adisesa, il Signore dei serpenti  e giaciglio di Visnu e quindi nel mantra prende gli attributi di Visnu: la ruota, la spada, la conchiglia. La descrizione di Patanjali ha lo scopo di suscitare la devozione, descrivendo l’aspetto della divinità, rievocandone l’immagine. Purtroppo, se non si capiscono le parole, questo non avviene. Per la spiegazione dell’invocazione parola per parola, vi invito a leggere questo interessantissimo studio, completo della traduzione (in inglese) di Geetaji Iyengar.

Invece per la pronuncia, vale soltanto l’esercizio. Questa è l’invocazione cantata da Geetaji:

Buona pratica!

 

 

Il cammino della devozione: Asana/Samyama (da una lezione di Geetaji)

Nel seminario del 23 giugno abbiamo affrontato la tappa più difficile: Il percorso della devozione: Dharana, Dhyana, Samadhi. Sono gli “anga” più elevati, tre fasi, per così dire, del percorso meditativo: in Dharana, la concentrazione è ancora intermittente, sebbene molto allenata e sorretta da fede profonda, in Dhyana, il flusso dell’attenzione scorre senza disturbi e senza pause; in Samadhi, il livello di attenzione è tale che la persona che medita si identifica completamente con l’oggetto della meditazione, il vero sé.

Guruji si è espresso molte volte su Dhyana e ha affermato che la pratica della meditazione vera e propria non si esegue in classe, ma ognuno la deve praticare individualmente. In classe si praticano Asana, Pranayama e  Dharana, alla ricerca di quel flusso ininterrotto che permette allo sforzo fisico di annullarsi nella pura concentrazione.

Geetaji ritorna spesso su questo argomento nelle sue lezioni, in particolare in una classe tenuta a Pune ha citato anche il Samyama, e quindi nel seminario questa è stata l’ispirazione per la sequenza.

Per prima cosa occorre imparare a praticare gli asana e capire che cosa significa praticare gli asana. Non dovete pensare che chi è flessibile può fare la posizione e chi non lo è non la farà mai. Questo significa avere paura del cambiamento; ma senza cambiamento non c’è evoluzione e soprattutto non c’è samyama.  Gli asana sono preliminari perché insegnano a cambiare, a modellare il proprio corpo, a renderlo silenzioso. Soprattutto insegnano un processo di apprendimento.   Il corpo e la mente sono tamasici per natura. Per superare questo, occorre tenere la mente vicino al corpo, non a vagare per conto suo.  Se il corpo non risponde, vuol dire che la mente non è vicino al corpo, oppure sente che sta avvenendo qualcosa di sconosciuto e prova paura. Nirodah per la mente è qualcosa di sconosciuto, per questo è tanto difficile.

samyama1Supta swastikasana. Incrociare le gambe in swastikasana, portare i piedi più vicino al bacino per compattare i femori, estendere le braccia per estendere i due lati del torace. Scapole in dentro, lombari giù. Mettere le mani come in urdhva dhanurasana, sollevare il torace come in paryankasana e appoggiare la cima della testa a terra. Se non è possibile, sollevare le ginocchia, mettere le mani sotto le cosce e puntando i gomiti, fare l’azione di paryankasana.

Badda konasana, spingere le piante dei piedi ed estendere la schiena a terra in supta badda konasana. spingere l’osso sacro a terra, rilassante gli inguini, estendere le braccia oltre la testa. Ora afferrare con le mani le caviglie (palmi verso l’alto) e spingere di più l’osso sacro all’interno, e gli inguini verso il basso.  ora portare le mani sotto le cosce, sollevare il torace come nella posizione precedente, mettere le mani in urdhva dhanurasana e portare di più la cima della testa verso il bacino.

Virasana. Portare le mani sulla pianta dei piedi  e andare in paryankasana. Non estendere le braccia per ora. Sollevare le scapole, spingere il dorso dei piedi, le tibie, gli ischi, la cima della testa, i gomiti. Poi andare in supta virasana ed estendere le braccia.

Una gamba in padmasana, l’altra in swastikasana (ardha padmasana). Il piede in swastikasana va sotto la coscia opposta. Paryankasana, spingere le cosce al pavimento, gli ischi giù, poi estendere i due lati del tronco, braccia estese oltre la testa. Altro lato.

Padmasana, matsyasana. Afferrare con le mani i metatarsi per portare la cima della testa più vicina al bacino. inguini giù, cosce giù. Poi estendere la schiena a terra. Altro lato.

dandasana. Spingere i gomiti a terra  e portare la cima della testa a terra. Afferrare i due lati del tappetino per sollevare di più le scapole.

uttanasana

sirsasana. Badda konasana in sirsasana.

samyama2parivrtta janu sirsasana. Un gomito lontano dalla gamba distesa, l’altra mano alla vita. Spingere il gomito e ruotare portando in dentro e in su la scapola. Il torace fa matsyasana. Tenere il lato interno del piede per fare leva con il gomito e aiutare la torsione.  Dovete capire perché il gomito non va giù. Non ruotate la testa prima di aver portato il gomito giù ed aver eseguito la torsione.  Una seconda volta. Ora il torace deve scendere, ma si deve ruotare verso il soffitto, le spalle allineate. Estendere il braccio verso il piede della gamba tesa, mano in su, poi piegare il gomito. Aiutare con l’altra mano a portare il gomito più in avanti.  Portare un lato del tronco verso il basso, l’altro verso l’alto. Occorre fare lo sforzo, aiutarsi con l’altra mano, se il gomito non scende.  Ma prima dovete fare l’estensione di quel lato, se contraete, il gomito non potrà mai scendere.  Se non siete capaci, potete iniziare con delle torsioni più semplici, oppure praticare con il muro. La gamba distesa vicino al muro, la schiena al muro, ora potete estendere il torace e immaginare che ci sia una televisione al soffitto, guardate là!

Parivrtta janu sirsasana. Una gamba piegata, l’altra tesa, torace rivolto in avanti. Ruotare la gamba tesa completamente, mettere la mano sotto la coscia per ruotarla. Estendere il lato della gamba, piegare il gomito ed estendere la mano oltre al piede per ruotare l’addome e il torace. Le scapole fanno paryankasana. L’altra mano in vita. Ora estendete il braccio opposto in linea come in parsvakonasana.  Infine afferrate il lato esterno del piede, piegate tutti e due i gomiti e ruotare.

Sayama3Utthita parsvakonasana=parivrtta janu sirsasana. Ruotare una coscia completamente, scapole giù, lati del torace su. Piegare ad angolo retto la gamba, radice della coscia giù, ginocchio indietro. La natica in avanti, come in parivrtta janu sirsasana.  Portare la mano giù, l’altra in vita. Se l’inguine non lavora piegare il gomito e spingere il ginocchio indietro e la natica in avanti, come nella posizione precedente. Ruotare le costole e portare il braccio opposto su.

Uttanasana

parivritta janu sirsasana. Preparazione. Connessioni con utthita parsvakonasana.  Piegare una gamba e ruotare. Osservare la gamba tesa, come si mantiene la rotazione della gamba? Dovete resistere con la natica in avanti. Come in utthita parsvakonasana, il piede e l’ischio della gamba davanti devono essere allineati

utthita parsvakonasana. Ruotare la coscia indietro, come in parivrtta janu sirsasana.  Ora la mano dietro e estendere il braccio opposto

parivrtta janu sirsasana.  Osservare l’allineamento. Il punto più difficile da muovere è la mente, muovere dalle abitudini, dallo stato tamasico.  Le prime volte il corpo può essere indolenzito, per questo la mente si rifiuta. E’ come partire da samashtiti: la gamba ruota di 90° la caviglia e l’ischio sono allineati, i due lati del torace sono allineati. Quando si allunga il torace verso la gamba tesa, addome e costole ruotano nella direzione opposta. Il bacino è il fulcro. La gamba dietro resiste e resta ruotata, non si muove in dentro. Ora si aggiungono le braccia e mantenendo le natiche in dentro si ruota di più.

upavishta konasana. Natiche in dentro, come parivrtta janu sirsasana. Integrazione: Dharana, Dhyana, Samadhi. Le azioni imparate in parivrtta janu sisrsasana devono essere integrate in utthita parsvakonasana. Questo è Samyama. Quanta attenzione è necessaria per questa integrazione? Ci vogliono anni di pratica per fare upavishta konasana, come samashtiti.  Andiamo dalla frammentazione all’integrazione. Eppure la mente scappa dall’integrazione, preferisce la frammentazione.

ardha chandrasana. Integrare tutte le azioni: utthita parsvakonasana, paryankasana, parivrtta janu sirsasana. E ogni asana va osservata in questo modo, ogni azione va integrata in questo modo. E’ un linguaggio che va perfezionato negli anni.  E’ un solo fluire di attenzione, come in Dhyana. Controllare voi stessi dal corpo, questo è il messaggio di Guruji.  Occorre partire dagli asana, dal corpo, finché non c’è integrazione nelle azioni del corpo, non c’è Samyama.

setubandha mattone

III.1 deśa-bandhaś cittasya-dhāraṇā

la concentrazione è fissare la mente in un luogo

III.2 tatra pratyayaika-tānatā dhyānam

la meditazione è fissare la mente su una sola immagine

III.3 tad evārtha-mātra-nirbhāsam svarūpa-śūnyam iva samādhiḥ

Avviene il samadhi quando la stessa meditazione riluce e la mente è priva della sua propria natura

III.4 trayam ekatra saṁyamaḥ

La pratica di questi tre si dice samyama

(Questa lezione di Geetaji è stata tenuta a Pune nel giugno 2009)

 

Definizioni di yoga

Non sappiamo esattamente quanto antico sia lo yoga; quindi non esiste una unica definizione di yoga. Tutti sappiamo che la radice sanscrita della parola significa unire, attaccare, e da essa sono derivate le parole prima latine, poi italiane di giogo e unione.  Secondo BKS Iyengar, yoga significa dirigere  la propria attenzione alla ricerca della suprema verità; ma anche significa unire la volontà individuale con quella divina. Il Maestro si chiede: quando una scienza, ad esempio, la chimica, fu scoperta, la definizione e la comprensione della materia erano le stesse di oggi? Certamente no.  Se oggi sentiamo parlare di “chimica” sappiamo immediatamente a cosa ci si riferisce. Però se guardiamo alla storia della scienza, possiamo vedere come è stato lungo il percorso per rendere noto qualcosa che prima era sconosciuto.

Secondo la tradizione indiana, i saggi cercarono una soluzione, avendo compreso che l’oceano dei desideri umani era senza fine e che la mente doveva trovare un modo per sentirsi libera da questa costrizione insopportabile. Non ci fu quindi una definizione della materia all’inizio; successivamente, quando con l’esperienza si crearono metodologie e tecniche di pratica, si tentarono anche le definizioni. Come nell’esempio della chimica, se vogliamo capire, dobbiamo considerare quanto è stato lungo il percorso di ricerca.

Quando ora vediamo le diverse definizioni di yoga dei Veda, Upanisad, Yoga Sutra e Bhagavad Gita, comprendiamo come la disciplina sia cambiata a seconda dei bisogni della società e della capacità di discriminare dei praticanti e studenti.

Un testo visnuita composto durante il primo millennio d.C., forse intorno al 300 d.C., il Ahirbudhanya Saṃhitā, fornisce una definizione di yoga molto chiara, che è quella ancora oggi più utilizzata: “Lo yoga è l’unione tra l’anima individuale e l’anima universale”.  E’ stato questo un momento di grande importanza per la storia e la filosofia indiana, in cui furono scritti i testi di riferimento.

Appena un poco più tardi, nella Bhagavad Gita, il dio Krishna si rese conto che la volontà umana era in fase di debolezza, e quindi dovette rendere più facile e comprensibile il cammino. Definì quindi lo yoga a due livelli, conoscenza e azione. “Lo yoga è equanimità”; “Lo yoga è eccellenza nell’azione”. Secondo BKS Iyengar, l’equanimità deve venire dalla intelligenza dell’anima e l’intelligenza della consapevolezza. L’anima, con citta (la mente), i karmendriyas (orgari di azione), i jnanedriyas (organi di percezione), ahamkara (senso dell’io), buddhi (intelligenza): tutto questo deve essere integrato e unificato con lo yoga. A questo punto, l’anima è ovunque e chiunque viene trattato con equanimità. Per quanto riguarda “l’eccellenza nell’azione”, Krishna non sta dicendo di agire senza un fine, ma di eliminare i motivi egoistici. Nel momento in cui l’egoismo interviene, l’azione è contaminata.  L’azione sicuramente porterà dei frutti, ma non è questo il motivo per cui bisogna agire. Il nostro compito è quello di eliminare l’aspetto egoistico e utilitaristico dall’azione.  Guruji approfondisce su questo aspetto, che è difficile da comprendere e da far comprendere.  E’ impossibile fare un’azione senza uno scopo, ma è possibile farla senza ambizione. Avere uno scopo ed essere ambiziosi non sono la stessa cosa;  lo scopo può essere di ottenere benefici universali, per tutti, invece l’ambizione ha sempre uno scopo egoistico e una finalità egoistica.

La parola “eccellenza” ha il suo corrispettivo nella pratica e nella rinuncia. Krishna non dice di rinunciare all’azione, tutt’altro; ma di agire rinunciando ai frutti dell’azione. “Eccellenza” è il modo di agire libero da ambizione e egoismo.  Quindi, la definizione dell’ Ahirbudhanya Saṃhitā si esprimeva in termini di bhakti  (devozione), mentre quella della Bhagavad Gita in termini di karma (azione). 

Infine, vediamo come Patanjali definisce lo yoga.  Al tempo di Patanjali, era necessaria una maggiore raffinatezza concettuale, perché ancora non vi era chiarezza su cosa fosse citta e cosa fosse anima, atman.  Così Patanjali definisce lo yoga in due modi: prima come disciplina e poi come fermare le fluttuazioni e modificazioni mentali.  Questi sono i primi due sutra della sua opera.  Il suo trattato è pratico, e in questo modo Patanjali definisce sia la pratica che la rinuncia.

Dopo tanti anni dobbiamo guardare, dice BKS Iyengar, a questa disciplina pratica in modo nuovo perché pratica e rinuncia sono troppo pesanti per i tempi in cui viviamo. Le persone  si vantano di praticare yoga, anche se in realtà praticano pochissimo. Questa è la mentalità moderna, vantarsi molto e fare poco.  C’è interesse per lo yoga, ma non c’è profondità.  E’ necessario un incentivo.  E allora, ragiona Guruji, io farei una piccola modifica alla definizione: ” Lo yoga è il fermare i dolori della mente”. Tutti noi soffriamo di dolori, fisici e mentali, abbiamo dispiaceri e motivi di tristezza; ma questo non vuol dire che si debba praticare yoga solo per risolvere problemi. Patanjali invita la nostra sensibilità e attenzione a guardare alle cause dei dolori e delle malattie, che è sempre dentro di noi, nascosta nei nostri comportamenti, abitudini, carattere, attitudine mentale. Infatti, sempre Patanjali ammonisce: “i dispiaceri che non si sono ancora manifestati, possono essere evitati”, ovviamente con la pratica yoga.

Anche Krishna aveva ricordato che i dolori possono essere evitati regolando la qualità e quantità di cibo, azione, sonno ecc. Con una vita regolata ed equilibrata, la pratica yoga si inserisce armoniosamente.  Comunque, tutti vogliamo evitare il dolore, ma l’analisi non è sufficiente. Dobbiamo trovare la radice del dolore nascosta nel samskara.  E’ questa una parola di denso significato: vuol dire l’accumulo delle azioni del passato e il coltivare se stessi in questa vita.  Benché cerchiamo di coltivare buoni pensieri e buone azioni, i comportamenti del passati lasciano come impronte.  Se vogliamo proseguire il cammino dello yoga, occorre fare due cose, coltivare nuovi samskara che lascino impronte positive e sradicare i samskara sbagliati del passato.  Non è facile. Le impronte sono radicate profondamente nel cuore e lasciano dei semi, i semi creano alberi che producono frutti. Questo è il ciclo inesauribile delle nostre vite. Ma lo yoga è l’unico mezzo con cui si possono curare le ferite nel cuore portate da samskara sbagliati. La pratica produce impronte positive speciali, “yogiche”, libere da paura e capaci di neutralizzare le impronte negative presenti.  Questo è ciò che dice Patanjali parlando di pratica e di rinuncia.

Questo ci dà infine un’altra definizione di yoga: “Lo yoga frena le modificazioni dei samskara. Nel cammino dello yoga, resta poi un’ultima impronta, la luce della saggezza che distrugge tutte le altre impronte negative, fino a quando anche questo samskara, positivo, ma pur sempre samskara, diventa inutile e si crea la luce completa. C’è una parola bellissima, Rtambhara, che non si pò esattamente tradurre. Significa dimorare nella verità. Prajna significa invece consapevolezza intelligente. Si trattare più alto livello di intelligenza. Per questo dico: ” Lo yoga ferma le fluttuazioni del samskara

(Questi appunti sono ricavati da BKS Iyengar, Light on Ashtanga Yoga, 2° ed., Mumbai, 2012, in particolare le pp. 15-27)

Il cammino della conoscenza: Asana, Pranayama, Pratyahara

Patanjali dedica al “cammino della conoscenza”, secondo la bella definizione di BKS Iyengar, nove sutra; ne aveva dedicati invece ben sedici a descrivere yama e niyama. Questo può essere spiegato con il fatto che yama e niyama costituiscono la vera base della pratica yoga, senza la quale nessun passo ulteriore può avvenire; vale quindi la pena di insistere  su quello che doveva essere, allora come oggi, un equivoco frequente, il darne per scontata la pratica e l’osservanza. Infatti, opportunamente BKS Iyengar aveva definito yama e niyama “il cammino dell’azione”.

Per quanto riguarda i famosi asana, il mezzo con cui tutti o quasi gli studenti occidentali si avvicinano allo yoga, molti studiosi hanno osservato, anche con una punta di disdegno, che parrebbero marginali nello yoga di Patanjali, dal momento che sono sbrigati in soli tre sutra e che non viene descritta nessuna posizione. Tuttavia, già il più antico commentario degli YogaSutra, attribuito al saggio Vyasa, descriveva una serie di posizioni e molte di più vengono descritte nei testi successivi.  Sembra ragionevole pensare quindi che, se Patanjali descrive così brevemente gli asana, esistessero altri testi e maestri specializzati in questo “anga” dello yoga per cui non si sia ritenuto necessario, in un trattato così sintetico, ripetere cose che molti già sapevano e facevano.   In effetti, per gli studiosi contemporanei di Patanjali, gli asana potevano essere intesi come una specificità  nel quadro di una disciplina molto ricca e complessa .

Asana” significa propriamente sedile, sedersi. A questo punto interviene l’insegnamento di BKS Iyengar: che cosa fa la mente quando siamo seduti in un asana, ad esempio swastikasana? Siamo in grado di rimanere perfettamente seduti a lungo, in modo stabile e confortevole, senza avvertire né noia, né fastidio fisico? Siamo in grado di rilassare nello sforzo e di sentire l’assorbimento nell’infinito, al punto tale da superare la dualità? Evidentemente rimanere nell’ asana richiede uno studio lungo e sofisticato, una pratica continuativa di anni, per sviluppare una sensibilità e un controllo del corpo speciale. Queste doti, secondo BKS Iyengar, si acquisiscono poco per volta nella pratica degli asana,  portando l’attenzione e la consapevolezza in tutte le cellule del corpo. Il corpo esegue determinate azioni e la mente osserva le reazioni, in un processo continuo, in cui la pelle, l’organo della sensibilità, ha un ruolo molto importante.

Quando si è acquisita stabilità negli asana,  si è pronti per il pranayama: controllato l’aspetto muscolare e scheletrico del corpo, grazie alla sensibilità della pelle e dello “strato” più esterno del corpo, si può controllare il respiro, ovvero il movimento che avviene all’interno del corpo. Nuovamente, secondo gli insegnamenti di Iyengar, è la ricerca dello “spazio” interno quello che ci interessa a questo punto avanzato della pratica.  Ma soprattutto la mente può rimanere stabile nel controllo di questi processi; e in questo modo, concentrandosi sul corpo, sullo strato esterno e poi sullo strato interno, la mente diventa focalizzata e non più “dispersa” nell’attenzione sugli oggetti dei sensi.

Si tratta quindi, dice correttamente Iyengar, di un cammino per la conoscenza, andando sempre di più nel profondo di sé.

img_20180525_191427.jpgLa sequenza da praticare:

swastikasana/ badda konasana/ upavishta konasana. L’estensione della colonna verso l’alto dipende dalla rotazione delle cosce verso l’esterno, in modo da liberare gli ischi.

utthita trikonasana/ virabadrasana 2/utthita parsvakonasana. Anche negli asana in piedi l’estensione della colonna dipende dalla rotazione delle cosce. Osservare come la testa del femore in dentro e la natica in avanti consentono di migliorare l’estensione in trikonasana/parsvakonasana. Provate a “sbagliare”, portando l’ischio indietro: la colonna crolla, la testa si muove in avanti. Allora portate la natica in avanti e mantenetela in avanti: osservate l’estensione e l’allineamento.

swastikasana/ badda konasana/ upavishta konasana

IMG_5144utthita parsvakonasana/ardha chandrasana. La preoccupazione del principiante è quella di mantenere l’equilibrio. Invece occorre nuovamente estendere la colonna in linea con la gamba dietro. Per fare questo, occorre portare la natica della gamba sotto in avanti, in linea con il ginocchio. Per migliorare l’equilibrio, alzate la coscia della gamba sollevata, ma abbassate dal ginocchio al piede.  Queste due azioni contrapposte stabilizzano la gamba dietro, e consentono di ruotare la cresta iliaca della gamba dietro verso l’alto.  Per imparare quest’ultima azione è utile eseguire ardha chandrasana con il piede dietro al muro: spingere forte la base dell’alluce contro il muro! Osservate il lavoro di Abhijata al cavallo, sotto lo sguardo vigile di Guruji. La cintura serve a sentire la rotazione in avanti della natica della gamba sotto. Il piede è appoggiato al cavallo, ma la base dell’alluce spinge mentre Guruji trattiene il tallone. Di conseguenza, la colonna di può estendere e il torace espandere. Queste sono le due azioni da imparare con gli asana che servono nel pranayama.

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swastikasana/ badda konasana/ upavishta konasana/badda konasana

Vira 1/vira 3. Valgono le stesse osservazioni di ardha chandrasana, ma in vira 1 si può osservare l’aiuto delle braccia nell’estensione verticale della colonna. Ruotare la natica della gamba dietro in avanti . Anche in questo caso è utile praticare al muro, con le mani su due mattoni, per imparare la rotazione del bacino. Il lavoro della gamba dietro è l’opposto di quello di ardha chandrasana: la coscia scende (perché la natica deve scendere) ma il tratto dal ginocchio al piede sale.  Spingere la base dell’alluce al muro per osservare l’estensione e la rotazione della gamba dietro.

parvatasana in swastikasana/ baradvajasana in swastikasana

adho mukha svanasana: con le mani sui mattoni si aiutano le spalle; con i piedi sui mattoni l’azione delle gambe e del bacino

Adho mukha vrchasana: per salire e per scendere, l’azione è la stessa di vira 3 (per gli studenti intermedi e avanzati). Chi non sa salire, si deve esercitare ad acquisire confidenza e mettere peso sulle mani, stirando le braccia e alzando le spalle.

Sirsasana, eka pada sirsasana

supra virasana

paryankasana

baradvajasana

Marichasana 3

setubanda sarvangasana

ujjyai pranayama posizione sdraiata espansione laterale (come in ardha chandrasana) con le coperte in verticale piegate in 3 sotto il torace

ujjyai pranayama, estensione verticale dal torace all’addome (come in vira 1/3) con le coperte orizzontali sotto il torace e l’ascella

savasana

Se si rileggono in questa ottica i sutra di Patanjali, si possono osservare tutti i passaggi sviluppati dall’insegnamento di Guruji, che attribuiva un particolare significato al sutra II, 48 in quanto il superamento della dualità poteva anche essere visto come la ricerca del perfetto allineamento. In un primo tempo, il pranayama è controllo del respiro che entra e che esce, poi diventa una pratica raffinata, con molte possibili varianti; esiste un tipo di pranayama, “il quarto” con cui si supera la distinzione tra esterno ed interno del corpo; il velo che nasconde la luce diventa più sottile e la mente è in grado di abbandonare gli oggetti dei sensi.

II.46 sthira-sukhaṁ āsanam

La posizione dovrebbe essere stabile e confortevole

II.47 prayatna-śaithilyānanta-samāpattibhyām

La posizione deve essere realizzata con il rilassamento nello sforzo e l’assorbimento nell’infinito

II.48 tato dvandvānabhighātaḥ

Così non si è afflitti dalla dualità degli opposti

II.49 tasmin sati śvāsa-praśvāsayor gati-vicchedaḥ prāṇāyāmaḥ

Quando l’asana è conseguita, segue il pranayama, il controllo del respiro che entra e che esce

II.50 bāhyābhyantara-stambha-vṛttiḥ deśa-kāla-saṅkhyābhiḥ paridṛṣṭo dīrgha-sūkṣmaḥ

Il pranayama consiste in movimenti del respiro interni, esterni e trattenuti; prolungati e sottili secondo il luogo, il tempo e il numero

II.51 bāhyābhyantara-viṣayākṣepī caturthaḥ

Il quarto tipo di pranayama supera i limiti dell’esterno e dell’interno

II.52 tataḥ kṣīyate prakāśāvaraṇam

Allora si attenua ciò che nasconde lo stato luminoso

II.53 dhāraṇāsu ca yogyatā manasaḥ

Anche, la mente diventa idonea alla concentrazione

II.54 svaviṣayāsamprayoge cittasya svarūpānukāra ivendriyāṇāṁ pratyāhāraḥ

Pratyahara avviene quando i sensi non entrano in contatto con gli oggetti; è quindi la natura della mente senza gli oggetti dei sensi.

 

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