Il Pranayama e i cinque elementi

Ogni aspetto dello yoga, yama, nyama, asana, pranayama, pratihara, dhrana, dhyana, samadhi coopera per la nostra interiore evoluzione.

Asana significa posizione e ri-posizione, ovvero riflessione nell’azione, quando c’è riflessione, c’è una reazione. Per questo sono chiamati “asana”.

Quanto al pranayama, pensate alla bellezza di questa parola composta, “esercizio del respiro” è il significato letterale. Ayama significa estensione del respiro,  che alla fine vuol dire esercizio. Non bisogna accontentarsi del primo significato che ci dà il dizionario. Ogni parola ha più significati e occorre cercare quella che si adatta di più all’argomento di cui si sta parlando. Alcuni pensano che gli asana abbiano a che fare con il corpo fisico, mentre il pranayama  abbia  a che fare con qualcosa di spirituale, ma Patanjali usa il termine “esercizio”. Gli asana non sono “esercizio”, sono un “posizionarsi”.

Quando Patanjali usa questo termine “pranayama” cioè esercizio, pratica del “prana”, del respiro, intende dire che con il pranayama si sviluppa la capacità di utilizzare il respiro, esattamente quando e quanto serve. Per vostra informazione quindi, secondo Patanjali, “pranayama” significa “esercitare il respiro”, mentre per gli asana non ha utilizzato la stessa parola di “esercizio”, allora dobbiamo capire perché.

Ho parlato in precedenza dei cinque elementi. Il pranayama è anche regolazione della vostra intelligenza. Quando voi camminate, seguite un percorso lineare e non perdete l’equilibrio. Nel pranayama,  seguite i percorsi interni del respiro,   dovete osservare con la vostra intelligenza quali strade state percorrendo. Inspirando, dovete osservare quali delle strade interne state percorrendo e quali no, espirando lo stesso.  Questa è la regolazione del respiro, non seguire meccanicamente delle istruzioni. In questo sta  la differenza tra un praticante esperto e un principiante. Il praticante sa portare il respiro, attraverso le strade interne, fino alla destinazione. Quando si inspira si percorrono certe strade e quando si espira si percorrono esattamente le stesse, nella direzione contraria. Così potete capire quanta attenzione è necessaria per ogni inspirazione e ogni espirazione. E’ molto facile perdersi.

Prima dell’inspirazione, si espira. Perché si espira? Per raggiungere l’etere  interno, che è vuoto. Quindi nell’espirazione raggiungete lo spazio interno,  l’elemento etere. L’etere non ha confini: e questo significa che la vostra intelligenza si mette in comunicazione con l’elemento aria, che è più grossolana dello spazio puro, l’etere. L’elemento fuoco è più grossolano dell’aria, e l’acqua e la terra seguono nel processo. Quando espirate, assaggiate l’etere, che è completamente “sottile”, non si può afferrare (nemmeno con i sensi o con l’intelligenza).

Nel momento in cui iniziate ad inspirare, per un breve istante, non entrate in contatto con il vostro corpo, ma con questo vuoto. Questo è quello che insegno, ma voi dovete osservare.  Dal non essere in contatto, entrate in contatto: non siete voi che entrate in contatto, ma il secondo elemento, l’aria. Dal non toccare sperimentate il toccare. Da questo tocco nasce una piccola  forza, che è l’elemento fuoco. Dal fuoco, sentite l’umidità, nei polmoni, nel torace e poi la materia stessa che è terra. Quindi inspirando ed espirando dovete osservare e distinguere i cinque elementi, come emergono nell’inspirazione e come si ritirano nella espirazione.  Questo è pranayama, controllare i cinque elementi nella respirazione e questo si chiama “ayama”.

Quando raggiungete la fine dell’inspirazione, la terra è pesante, la sentite. Non dovete disturbarla, significa che siete arrivati alla fine dell’inspirazione. Quando espirate, espirate dall’elemento terra, all’elemento acqua –sentite il secco e l’umido- poi arrivate al fuoco, che sfuma nell’aria e nell’etere. Quindi nell’inspirazione andate dall’elemento più sottile al più grossolano e nella espirazione dal grossolano al sottile.

Questo è il motivo per cui l’ho chiamato bakti marga, devozione. Potete avvertire questi cinque elementi nell’inspirazione e espirazione soltanto quando la vostra mente è in uno stato di completo silenzio durante l’osservazione. Questo silenzio è segno che c’è qualcosa oltre i cinque elementi. Che cos’è? All’inizio dell’inspirazione, è la consapevolezza universale del respiro; alla fine, la consapevolezza individuale del respiro. Il mio torace è completamente “pieno”.

Nell’espirazione, tornate indietro, attraverso i cinque elementi,  dalla consapevolezza individuale alla consapevolezza universale. Quando raggiungete questa consapevolezza, tutti gli elementi sono silenziosi. Soltanto questo breve momento è l’immagine del divino. Nel kumbaka, è possibile, pur nell’ individualità, mantenere quel senso divino. La consapevolezza individuale si trasforma in consapevolezza universale. Non arriva subito. Bisogna praticare. Ma prima occorre osservare, come nell’inspirazione e espirazione si attraversino i cinque elementi, che sono tutti presenti nei percorsi interni del corpo.

Questo è quello che dovete fare per comprendere il pranayama (continua)

(questi appunti sono dedotti dalla lezione sul pranayama tenuta da Guruji il 29 novembre 1993, nell’ambito delle cerimonie per festeggiare il suo 75esimo compleanno. Grazie a Daniela Rialdi che mi ha donato il DVD)

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Sviluppare tolleranza attraverso lo yoga

di Zubin Zarthoshtimanesh

Oggi che lo yoga è diventata un’industria miliardaria e che promette di correggere e migliorare qualsiasi aspetto dell’esistenza, dai problemi fisici alle conseguenze di stili di vita disordinati, è ancora più importante comprendere il suo vero  potenziale e vedere come sviluppare non soltanto la salute del corpo fisico, ma anche tolleranza e saggezza.

L’essere umano “sociale” è una creatura piuttosto tollerante (ndr: e il suo successo sul pianeta dipende proprio dalla sua adattabilità). Tutti noi sopportiamo parecchio nella vita, ma questo non significa che stiamo evolvendo. La tolleranza deve essere unita ad altre qualità come la pazienza, l’autocontrollo, la serenità, la calma, il perdono, la conoscenza, la determinazione e la compassione.

bhishma-ashtamiQuesto è spiegato dalla storia della vita di Bhisma, uno dei più popolari eroi della mitologia indiana. Voi conoscete l’incrollabile voto che Bhisma fece nel Mahabharata: decise che non si sarebbe mai sposato e alla fine rinunciò ai suoi diritti al trono del regno di Hastinapura. Chi conosce la storia sa bene che Bhisma non soltanto tollerò la sua vita così come si era votato a condurla, ma compì scrupolosamente ogni suo dovere. Anche nella Gita si ricorda che non dobbiamo essere legati ai risultati e ai frutti delle nostre azioni: la cosa più importante è che la qualità dei risultati o dei frutti non sia compromessa in alcun modo. Non essere attaccato ai frutti, e l’albero produrrà, con una incrollabile perseveranza, i frutti della qualità più alta.

Dobbiamo non soltanto imparare a tollerare, ma anche trasformare questo “sopportare” in modo tale che ci porti ad uno stato differente e più elevato. Sul letto di morte (un letto di frecce!) Bhisma recitò uno straordinario commentario sulla filosofia, la morte, la vita, che ci è pervenuto sotto il nome di Shanti Parva, il XII libro del Mahabharata. Quindi la sua tolleranza, lungi dal provocare amarezza,  lo portò all’evoluzione fino allo stato di sthitapragnya (ottenimento della più completa saggezza). Come sapete, anche noi siamo in grado di sopportare grandi dolori, però poi cosa succede subito dopo? Crolliamo  e alla prima occasione siamo capaci di esprimerci in modo supercritico, impaziente e offensivo.

Ci può essere un esempio più grande di Gesù Cristo? Non soltanto sopportò dolore fisico e umiliazione, ma si rifiutò di criticare i suoi aguzzini persino sulla croce: “Perdonali, Signore, perché non sanno quello che fanno!” .

Questo principio è molto importante per capire il concetto di tolleranza. Essenzialmente, alla fine una persona diventa intollerante perché “non sa”.  In altre parole, la conoscenza (jnana) è di grande importanza. Studiare per un esame è un tipo diverso di conoscenza rispetto alla conoscenza di vita. La conoscenza spirituale inizia dove termina l’educazione “ufficiale”. Nella vita, non è solo l’evoluzione intellettuale ma anche la conoscenza del cuore che rende le persone evolute, sensibili e consapevoli come esseri umani.  L’intelligenza delle emozioni è immortale, ampia e forte. L’intelligenza intellettuale (vitarka e vichara) cresce come l’albero delle noci di cocco: benché molto alto, non riesce a fare ombra a chi è sotto.  Invece l’intelligenza delle emozioni, essendo forte e grande, accoglie,  offre riparo, e aiuta molte persone con la compassione e l’amicizia. Ed è questa la ragione per cui, in tutte le le culture,  la tolleranza è definita come il punto di partenza per la spiritualità.

Il saggio Patanjali, che si dice sia vissuto 2000 anni fa, ha riassunto l’antica saggezza con l’emancipazione del sé nei 196 Yoga Sutra, letteralmente “fili” di saggezza logica.  Nella prima parte, Patanjali afferma “maitri, karuna, mudita, upekshanam sukha duhkha punya apunya visayanam bhavanatah citta prasadanam” (YS,  I, 33). In questo sutra, Patanjali elenca le qualità che occorre coltivare per sviluppare l’intelligenza del cuore: amicizia, compassione, contentezza, indifferenza. Queste qualità devono essere in equilibrio con lo sviluppo in verticale dell’intelligenza intellettuale, portata da vitarka, vicara, ananda e asmita (pensare analitico, ragione, felicità, senso dell’io). Quindi, la tolleranza, nella terminologia dello yoga, è la somma di:  amicizia, compassione, contentezza e indifferenza con il “senso dell’io”, che agisce da contrappeso. Patanjali ci insegna come evitare l’esaltazione dell’auto realizzazione –atma darshana- e come mostrare indifferenza per questo.

Tolleranza non è il semplice sopportare un nemico sgradevole; occorre gradualmente coltivare il sentimento con il quale le qualità ricordate possano sviluppare l’intelligenza delle emozioni per progredire nella consapevolezza del sé. Quindi inizialmente si svilupperà la tolleranza, ma gradualmente si dovranno sviluppare anche le qualità della compassione e della contentezza, in modo che la tolleranza e l’accettazione diventino la naturale condizione dell’essere.

La tolleranza può anche essere compresa attraverso i tre gunas. Limitarsi a tollerare qualcosa può essere tipico di tamas. Per esempio, molte persone dicono di tollerare il dolore, ma subito diventano sconfortate e di cattivo umore. Arriva la qualità di rajas: è come la madre che tollera il suo bambino, ma lo educa in modo molto severo per la sua educazione e sviluppo. Una natura “sattvica” consiste nel semplice continuare a vivere secondo il proprio dharma (disponibilità verso i propri doveri). Ma prima occorre trovare la propria strada e seguirla con costanza. Prendete cosa avvenne nel 1948, quando Gandhi intervenne nei disordini nella piccola città di Noakhali nel Bengala. Fu chiamata la polizia ma non riuscì a fermare la rivolta.  A quel punto Gandhi arrivò sul posto, era una situazione incontrollabile. Ma la sua sola presenza funzionò. Fu dichiarata la tregua subito e la pace continuò fino oltre alla sua morte. Quindi un santo non si limita a tollerare, ma sprigiona calma dal suo interno; così la tolleranza diventa una realtà anche per gli altri.

Coltivare la tolleranza attraverso le Yogasana

Le asana e il pranayma che impariamo e pratichiamo nello yoga hanno la potenzialità di sviluppare in voi qualità come la tolleranza, la pazienza, l’osservanza dei doveri e altre virtù. Ma il problema è che noi ci concentriamo solamente sull’obbiettivo dei benefici (fisici) degli asana. Per esempio, molti praticano yoga per perdere peso, per vincere la pigrizia, o per combattere il diabete. Ma rimanere in asana come Sirsasana o Halasana vi può aiutare a sviluppare capacità di sopportazione, calma e pazienza. Setubandha Sarvangasana non soltanto rigenera il cervello, ma vi regala quiete interiore. Infatti ogni pratica di purificazione, lavora attraverso i panchakosas.  Cosa sono i panchakosas? Secondo la filosofia yoga, siamo divisi in panchakosas, i cinque strati del séanamaya (corpo fisico), pranamaya (corpo energetico), manomaya (strato psicologico), vijnanamaya (strato dell’intelligenza) e infine  anandamaya (corpo di beatitudine).

Spesso la nostra pratica resta limitata a anamayakosa. La bellezza dello yoga e degli asana che pratichiamo ci danno modo di accedere ai livelli superiori della mente e delle emozioni attraverso ogni parte del corpo.  Qualcosa di molto fisico come lo stirare le ginocchia o l’aprire il torace con le posizioni indietro non ha solo un impatto fisico ma trasforma la vitalità della mente. Questo è il motivo per cui gli asana devono essere eseguiti in modo tale da integrare con piena consapevolezza il corpo, la mente, il respiro e i sensi.

Patanjali dice “Balesu hasti baladini,” (YS, III, 25), che significa che con il samyama, lo yoga svilupperà la resistenza fisica e la forza di un elefante. Come sapete, gli elefanti, oltre alle loro caratteristiche fisiche, sono riconosciuti per la loro memoria e tolleranza. La forza è di solito intesa dal punto di vista fisico, ma l’elefante è il perfetto simbolo anche della pazienza. Quindi, dobbiamo imparare a penetrare i nostri kosas attraverso la pratica yoga per acquisire forza e resistenza, da vari punti di vista.

Zubin Zarthoshtimanesh ha studiato sin da quando era ragazzo con BKS Iyengar. Ringrazio Zubin per aver consentito la traduzione. Questo articolo era stato pubblicato sul sito dell’Associazione Iyengar Yoga degli Stati Uniti. 

 

 

 

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